La delusione di Mafia Capitale ora può creare mostri politici
Macaluso, Fiandaca e Lupo spiegano gli effetti della Cassazione illuminando le prossime frontiere del populismo penale
Roma. “Dovremmo abituarci ora a parlare di ex Mafia capitale”, esordisce così il professore Giovanni Fiandaca, voce squillante, tra quelle che non hanno mai creduto alla tesi di una Cupola all'ombra del Cupolone. La sesta sezione penale della Cassazione gli ha dato ragione. “Sono molto amareggiato dell'esistenza di un ministro della Giustizia che considera le manette per gli evasori come una ‘svolta culturale'”. Si riferisce all'intervista di Alfonso Bonafede al Corriere della Sera? “Esatto – prosegue il professore ordinario di Diritto penale all'Università di Palermo – ‘Svolta culturale' sarebbe la destinazione di maggiori risorse agli organi di controllo, a partire dalla Guardia di finanza, per indagini tributarie più efficaci e rapide. La minaccia di più galera non è solo populismo ma è una forma deteriore di plebeismo penale. Per paradosso, i movimenti che si richiamano al popolo illudono il popolo che il carcere sia la soluzione per ogni questione sociale, inclusa l'evasione fiscale”. E dire che guardasigilli e premier sono due avvocati... “Formalmente sono da considerare giuristi per via della comune formazione giuridica ma io li ritengo piuttosto camaleontici. Nessun avvocato avrebbe concepito una riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. E' un segno del decadimento dei tempi. Sono sorpreso che l'attuale ministro sia stato confermato nel suo ruolo con l'avallo del Pd: l'alleanza con il M5S rischia di rafforzare le componenti giustizialiste presenti al suo interno. Temo ulteriori peggioramenti sul versante della giustizia penale”. Tornando alla sentenza della Cassazione, professore, dopo undici ore di camera di consiglio, gli ermellini hanno demolito l'impianto accusatorio costruito pazientemente in sette anni dall'ex procuratore capo Giuseppe Pignatone. “Non ho motivi per dubitare dell'assoluta buona fede di Pignatone che conosco come professionista integerrimo. Secondo il magistrato, l'esistenza di un cosiddetto Mondo di mezzo rispondeva a una diagnosi criminologica di mafiosità diversa da quella classica. Non ho visto, da parte della procura, tentativi di strumentalizzare l'inchiesta ma piuttosto la volontà di elaborare una concezione evolutiva della criminalità mafiosa”. Che però non ha retto al terzo grado di giudizio: i neri di Massimo Carminati e la Cooperativa sociale 29 giugno di Salvatore Buzzi sono ritenute due associazioni a delinquere semplici, come tali sanzionabili con regimi e termini di detenzione ordinari. “Un'organizzazione mafiosa presenta determinati connotati a sfondo sociologico-ambientali, tra cui la capacità di intimidazione e assoggettamento. Tuttavia, se la capacità intimidatrice resta circoscritta a un determinato settore di attività, se per esempio riguarda esclusivamente gli appalti del Campidoglio o i rapporti con certi politici romani, essa non integra una fattispecie propriamente mafiosa. La procura e la Corte d'appello di Roma hanno applicato un'interpretazione estensiva, sconfessata dalla Cassazione”. Già in primo grado, quando gli imputati sono stati condannati per associazione a delinquere senza aggravante mafiosa, era prevalsa una lettura riduzionista. “Io non sono sorpreso dalla pronuncia della Cassazione, paragonabile a una situazione da bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. La stessa Cassazione ha ritenuto che a Ostia ci fosse la mafia. Siamo in presenza di un dibattito giurisprudenziale complesso, sfociato in molteplici orientamenti interpretativi, talvolta in contraddizione tra loro”. L'altalena dei verdetti disorienta i cittadini. “Comprendo il senso di spaesamento ma bisogna prendere atto che nella giurisprudenza c'è più incertezza che chiarezza. Prevale la discrezionalità interpretativa dei giudici. E' risaputo che l'articolo 416 bis del Codice penale descrive l'associazione mafiosa secondo i connotati tradizionali delle mafie storicamente insediatesi nel Meridione, come Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Il dibattito nasce dal tentativo di inquadrare penalmente le mafie straniere o le associazioni mafiose di recente insediamento al Nord che, anche quando mantengono un collegamento con le organizzazioni madre, non sempre presentano la capacità di sprigionare una forza intimidatrice diffusa. Mi riferisco, per esempio, alle ‘ndrine attive in Lombardia o in Emilia Romagna: in tutti questi casi, risulta difficile applicare il 416 bis”. Con i ministri Cancellieri e Orlando in via Arenula, lei ha guidato una commissione ministeriale che ha avanzato proposte di riforma in materia di criminalità organizzata. “Il gruppo di lavoro da me presieduto si è concentrato sulle misure di prevenzione patrimoniali, e tuttavia abbiamo affrontato in quella sede il tema della possibile riforma del 416 bis al fine di depurarlo dei connotati classici per conferirgli una portata più ampia. Alla fine abbiamo preferito soprassedere, confidando in una successiva evoluzione giurisprudenziale, perché eventuali ritocchi normativi avrebbero avuto effetti dirompenti e ingovernabili”. In che senso? “Considerata la qualità dell'attuale personale politico e parlamentare, viviamo il paradosso che, anche quando si vorrebbero apportare miglioramenti con le cosiddette ‘riforme', si determina il risultato opposto. Gli organi legislativi non sanno più scrivere le leggi, le forze politiche sono incapaci di legiferare e così approvano norme indefinite che poi approdano nei tribunali con un margine di discrezionalità interpretativa sempre maggiore. Una norma, una volta che esce dalle mani del legislatore, è come una barca che va in mezzo al mare e il cui viaggio è condizionato in larga misura dall'interpretazione giurisprudenziale”. La democrazia dei giudici. “Fa impressione, lo so, ma nel mondo contemporaneo il diritto è sempre più interpretazione giurisprudenziale. Le leggi escono dal Parlamento in forma di linee guida o di semilavorati giuridici che spetta poi ai giudici specificare. La mancanza di competenza, una ignoranza diffusa e la distanza dei punti di vista nelle maggioranze di governo contribuiscono a questa degenerazione”. Mafia capitale ha avuto un clamore mediatico internazionale: Roma come covo di mafiosi, la Suburra di violenza e corruzione. “Il discredito sulla città è innegabile. La strumentalizzazione politica di qualcuno ha acuito l'eco della vicenda”. Qualcuno ha già scontato un periodo di carcere al 41bis. “Io sono Garante dei detenuti in Sicilia, so bene quanto sia importante rispettare i diritti di chi è privato della libertà. Sia chiaro: la sentenza li condanna comunque a pene pesanti in quanto partecipi di un'associazione a delinquere. Tuttavia, la connotazione mafiosa è ben più infamante e per le restrizioni speciali connesse al ‘carcere duro' i condannati potranno richiedere un indennizzo”.
Salvatore Lupo è uno storico, non un uomo di legge. Professore ordinario di Storia contemporanea a Palermo, è tra i massimi esperti del fenomeno mafioso a cui ha dedicato numerose pubblicazioni, incluso il volume “La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa”, scritto a quattro mani con Fiandaca (Ed. Laterza). Commentando la ex Mafia capitale che fu sodalizio criminale e non clan mafioso, Lupo è tranchant: “Che cos'è una organizzazione mafiosa? Io lo so, e non ho bisogno che me lo spieghi un magistrato. Il concetto di mafia deriva da una pluralità di approcci disciplinari di cui quello giudiziario-penalistico è soltanto uno”. Lei ha sempre contestato la tesi di una mafia autoctona romana. “Quando ci sono in ballo fenomeni sociali complessi, non possiamo restare ostaggio di definizioni penalistiche o, peggio, giudiziarie. Il dibattito sulla mafia prosegue da centosessant'anni, io lo conosco e non intendo farmi condizionare dall'ultima sentenza o dall'ultima leggina sulla mafia. La mafia esisteva quando i tribunali la ignoravano o ne negavano l'esistenza. O quando interi pezzi della classe dirigente sostenevano che fosse una fantasia. Anche il mondo politico e l'opinione pubblica dovrebbero interrogarsi sulla tendenza a subordinare il giudizio su un fenomeno sociale al pronunciamento di un giudice”. Con quali parole lei descrive la mafia nelle aule universitarie? “Il primo tratto distintivo è il radicamento nel tempo: la mafia si struttura in un gruppo umano su scala intergenerazionale. La mafia non si lega a singole persone ma attraversa le epoche e le persone. Non si è mai vista un'organizzazione mafiosa che cessa di esistere in seguito all'arresto del capo. La mafia esercita un potere intimidatorio ed è capace di erogare la sanzione estrema, la morte. Se il mafioso non compie il delitto di sangue, è perché non ha bisogno di farlo: la sua fama lo precede. La gente sa che lui, o l'organizzazione di cui fa parte, sarebbero capaci di attivare anche quel canale di assoggettamento. La mafia è minaccia e consenso. E' importante però insistere sulla distinzione tra i fatti e l'inquadramento penalistico dei fatti”. Un'impresa. “I tentativi di strumentalizzazione non stupiscono. Sorprende invece che le stesse forze politiche che sostengono l'importanza della dialettica tra magistratura giudicante e inquirente si mostrino sorprese di fronte a verdetti contraddittori: è la dialettica tipica del sistema. La procura fa il suo lavoro, i giudici pure. L'opinione pubblica deve sapere che il signor Carminati ha commesso reati gravi ma che l'organizzazione mafiosa è un'altra cosa”. Anche perché, se tutto è mafia, nulla è mafia. “Quarant'anni or sono, la mafia costituiva una minaccia gravissima, poi dalla metà degli anni Novanta è diventata un problema sistemico privo di caratteri emergenziali. I tribunali e lo stesso legislatore dovrebbero attenersi a un'interpretazione più conforme ai criteri fisiologici del fenomeno mafioso. Se pensiamo di vivere ancora al tempo dello stragismo mafioso, vuol dire che abbiamo smarrito il senso della storia che viviamo”. Secondo lei, quella nigeriana è “mafia”? “In un'accezione estensiva, può essere definita tale. Se però ogni cinese dedito alla contraffazione di marchi viene bollato come mafioso, ricadiamo nel solito malinteso”.
Negli anni Cinquanta Emanuele Macaluso è segretario regionale del Pci in Sicilia. Nel '62 cede il testimone a Pio La Torre. Sin dal principio, l'ex direttore de L'Unità e de Il Riformista ha contestato l'asse portante della fu Mafia capitale. “Qualche tempo fa, mi sono confrontato con l'ex procuratore Pignatone – dichiara Macaluso al Foglio – A me è parso che anche lui nutrisse dubbi circa l'assimilazione tra l'organizzazione di Buzzi e Carminati e una struttura come Cosa nostra. La mia impressione è che, pur avendo sottoscritto l'imputazione più grave, il procuratore non fosse mosso da certezze granitiche sul punto”. Lei che in Sicilia è stato comunista, anzi migliorista, al tempo della coppola e della lupara, come ha accolto la sentenza della Cassazione? “Nell'attesa di conoscere le motivazioni, lo ritengo un verdetto giusto. Citando Leonardo Sciascia, se tutto è mafia, nulla lo è. Cosa nostra è arrivata a Roma: nel 1952 Frank Coppola, detto ‘tre dita', si insediò a Pomezia e da lì iniziò una serie di azioni delinquenziali importando i metodi della mafia sicula nel Lazio dove realizzò un vero e proprio sistema mafioso, dotato di addentellati non secondari anche nel mondo politico di allora. Tuttavia la tesi di una mafia propriamente romana mi è sempre parsa priva di fondamento fattuale”. La storia della Cupola all'ombra del Cupolone ha denigrato l'immagine internazionale della Città eterna. E ha fatto la fortuna politica del sindaco in carica. “Non mi parli di questi grillini, per carità: sono un branco di improvvisatori, incolti e ignoranti, non conoscono la storia. Ho visto che questa Raggi si è presentata in aula in Cassazione, probabilmente immaginava un verdetto diverso e non vedeva l'ora di esultare davanti alle telecamere. Le consiglierei di starsene in ufficio a governare una città senza governo”. Lei è durissimo. “Guardi, siamo in balia di questi personaggi. Stamane ho letto che per questo ministro della Giustizia il carcere sarebbe una ‘svolta culturale'”. Ce l'ha pure con lei con Bonafede? “Sta facendo dei danni immensi, e il Pd lo lascia fare. Sulla giustizia doveva esserci discontinuità totale, invece tra due mesi entrerà in vigore il blocco della prescrizione. Io domando: si può tenere una persona a processo per vent'anni? Nessuno vuole far cadere il governo perché nessuno vuole le elezioni: i partiti dimezzerebbero i deputati, Renzi ne eleggerebbe due. Ma il Pd, su un tema così rilevante per le libertà personali, non può lasciar correre, non può cincischiare”. Ieri Matteo Salvini, il Truce che lei disprezza, ha criticato il guardasigilli Bonafede proprio sulla “svolta culturale” delle manette. “E' un po' tardi: la legge sulla prescrizione lui l'ha votata e approvata”.
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