Un infinito stupore

    Questo racconto ha un oggetto: il cielo notturno con i suoi larghi spazi vuoti. Esporremo una piccola narrazione delle spiegazioni che, in oltre 15 secoli, l'uomo si è dato della scena notturna, della natura, di quel cosmo immenso e del suo destino. Nel racconto campeggiano tre protagonisti, tre maestri del cielo – Aristotele, Newton ed Einstein – che, nell'antichità, nell'era classica e nella modernità, detteranno le tre cosmologie, durevoli nei secoli, che segnano le tre risposte al perché di quella scena notturna, in fondo, sempre uguale: un cielo stellato.

    Per Cicerone la Natura ci ha dotato della posizione eretta per farci elevare lo sguardo al cielo, la nostra sede originaria. Ovidio lo ribadisce nelle Metamorfosi: la creazione “ha alzato lo sguardo dell'uomo, perché lo spingesse fino alle stelle”. Abbiamo col cielo notturno una relazione di sdoppiamento: da un lato lo stupore, “l'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta” gridava Pascal, dall'altro la meraviglia e la compassione. Valery riteneva “perfettamente umano lo stordimento di Pascal”: anche una grande intelligenza, nell'approccio con le parole che descrivono il cielo notturno – silenzio, spazi, infinito, eterno – “prova un iniziale terrore”, avverte la propria fragilità. “E' la sensazione di non poter contare le stelle – secondo il poeta francese – la causa dello sgomento”. Secoli prima, Galileo aveva indicato questa stessa frustrazione, l'“impossibilità di numerare le stelle”, come la causa di quella problematica invenzione umana che è l'infinito. Un concetto consolatorio ma intricato. Specie quando si tratta di universo. Lo sgomento di Pascal, nell'approccio al cielo stellato, è una sensazione provvisoria. Sapiens imparò presto a superare lo smarrimento e il turbamento dinanzi alla scena notturna e a far prevalere la meraviglia. La stabilità della notte stellata, la sua periodicità senza cambiamenti e il suo ordine apparente si trasformarono in rassicurazione. Anzi, in impulso a conoscere. La scienza nasce in cielo. E' ancora il grande poeta a darci le chiavi: dinanzi allo spettacolo della notte stellata, dice Valery, c'è una risposta del cuore e una risposta della mente. Il primo è rapido, precipitoso, inquieto: si sgomenta o si commuove. E' impotente. La mente, invece, ha pazienza, curiosità, interesse e si affanna a dare un ordine alla scena. Così nasce la scienza del cielo. Fu Aristotele a dirlo per primo: la meraviglia del cielo notturno è un'astuzia della ragione, è la destrezza della Natura per indurre alla conoscenza: homo diventa sapiens affezionandosi al cielo notturno. Animali addomesticati dal cielo, potremmo dirci. Che vagando tra le stelle si fanno socievoli e filosofi, insiste Aristotele. Sarà così per Dante, per Kant per Einstein. Quest'ultimo definiva l'approccio al cielo notturno la “santa curiosità” che schiude alla conoscenza. Non è un caso, perciò, che la scienza nasca in cielo e si chiami astronomia.

    L'approccio al cielo notturno, nato con lo sgomento, la meraviglia e la curiosità, è diventato, con i secoli, un'idea innata. Qualcosa che ognuno porta dentro. Immagini e nomi delle stelle, fateci caso, è come ci fossero noti da sempre: come fossero affondati nella memoria: vocaboli familiari e consueti. Ci appaiono quasi figure riaffioranti dall'anima. Ai musicali nomi arabi o greci delle stelle più luminose o importanti – Sirio, Vega, Rigel, Aldebaran, Canopo, Arturo, Deneb, la stella Polare – avvertiamo una sensazione di fascino, di magia e di familiarità. Come a quelli mitologici delle costellazioni e degli asterismi: il Grande Carro dell'Orsa; il Triangolo Estivo; l'incredibile poesia in figura della W di Cassiopea; la A, stretta e allungata, di Andromeda; la squisita eleganza di Orione con le sue stelle colorate. E' uno spettacolo che dà la sensazione di un ritrovamento. Non di una scoperta. Fu proprio così che Kant lo descrisse, nella celeberrima pagina finale della Critica della ragion pura, “l'ammirazione sempre nuova e la venerazione crescente per il cielo stellato”: qualcosa di celato che viene fuori, una sorta di messaggio da un Dna primigenio. Scolpita in centinaia di migliaia di anni, l'immagine del cielo – immota e stabile – è diventata carattere, abitudine, cultura. Henri Poincaré, fisico francese, scrisse: “Lo scienziato studia la natura non perché è utile ma perché ne prova piacere… essa è bella”. E bellezza, nelle cose naturali conclude, “è quella che risalta dall'ordine armonioso delle parti”. E l'armonia è quello che comunica il cielo notturno. Perché di notte il cielo incute, certo, soggezione ma ci appare anche rassicurante, ordinato, amico? Per una ragione: da venti e più secoli l'uomo assiste, ogni notte, alla stessa scena. Le cose in cielo non cambiano alla scala dei tempi umani, della vita degli uomini e delle donne.

    Prendete la stella più comune: la stella polare. E' una funzione che cambia, nel cielo, ogni 26 mila anni. Dalla stabilizzazione del pianeta, miliardi di anni fa, quante migliaia di stelle sono state polari? In linea, al sud e al nord, con l'asse terrestre e le sue rotazioni? Eppure, da 13 mila anni, praticamente l'intera storia di Sapiens sapiens, la Polare è lei, la stella del Nord, Ursae Minoris. Ci sembra eterna. “Sono costante come la stella del Nord”, scriveva Shakespeare. A ogni uomo e donna nei secoli, l'immagine ordinata e armoniosa del cielo, infine, è apparsa come il migliore indizio di Dio, il segno inconfondibile della divinità della Natura: dai greci antichi fino alla modernità. “Dio non è malizioso”, scriveva Einstein, e prova ne è il fatto che “rende intellegibile il cosmo”. La Natura appare tanto più divina quanto più si lascia capire. L'armonia è stata, per 15 secoli, il filo rosso del cielo e delle sue tre culture: astrologia, astronomia e cosmologia. Esse hanno raccontato la consonanza, l'euritmia, l'ordine immoto e rassicurante della notte stellata: l'universo come opera d'arte. E' ancora così? O la scena sta cambiando? Per una strana coincidenza, quasi un principio antropico, è esattamente nel nostro tempo, nella finestra temporale degli osservatori evoluti, dotati di “occhi artificiali”, sofisticati e potenti, che la scena cambia. Noi che, ormai, abbiamo imparato a “contare le stelle”, a squarciare il velo, a penetrare la profondità del cosmo fino all'impensabile, ad avventurarci, con i nostri strumenti, alle distanze incredibili dei miliardi di anni luce, ad ascoltare quasi gli echi dell'origine di tutto, noi scopriamo un universo nascosto, misterioso. Non più amico e rassicurante ma minaccioso e inquietante: affollato di messaggeri strani (buchi neri, onde gravitazionali, materia oscura, energia oscura). E' come se Dio si fosse fatto malizioso e l'armonia si fosse dissipata.

    Il cielo notturno: una scena antica

    … allora l'uomo dovette rivolgersi al cielo… ogni stella è in levata eliaca in un periodo ben preciso. E quindi tra due levate eliache, di successive di una certa stella trascorre un anno…

    Nel museo della Preistoria di Halle è conservata una lastra di bronzo e oro del 1600 a. C. La Nasa, nella sua splendida galleria di foto astronomiche, ne ha fatto la “foto del giorno” nel 2018. E' un oggetto controverso di 3.600 anni fa, in piena età del Bronzo. Non è chiaro il suo scopo: evocativo, augurale, votivo, di calendario. Forse tutte queste cose. Ma, soprattutto, è considerato la più antica rappresentazione artistica del cielo notturno, la prima mappa astronomica redatta dall'uomo. Raffigura il Sole all'alba e al tramonto, i due solstizi, la Luna crescente, lo sfondo di stelle raggruppate e, al fondo, una sorta di barca che regge tutto: la Via Lattea. Sette stelle sono messe in formazione, raggruppate in una figura assai nota e inseguita del cielo notturno: l'ammasso aperto delle Pleiadi, forse l'asterismo più celebrato, a 443 anni luce, nella costellazione del Toro. La sua forma lo fa spesso confondere con l'Orsa Minore. Chi approccia il cielo per la prima volta dovrebbe sempre iniziare dalle tenui Pleiadi. E', anche, uno degli esercizi visivi per gli aspiranti astronomi: una volta individuato l'ammasso, provare a contare le stelle. A occhio nudo, esso ci appare una singolare nebulosa dalla luce bianca soffusa. In essa si distinguono sette stelle: “Le sette perle, alternate con l'onice di cui è intercalata la collana” cantava nell'XI secolo il poeta andaluso Ibn Hamdis. In realtà la nebulosa conta tra le 500 e le 2000 stelle, in un raggio di circa 8 anni luce: stelle, giovani, vicine e avvinghiate nello stesso destino. Nessun gruppo di stelle è presente come le Pleiadi nel mito, nelle leggende, nella poesia in tutte le culture e civiltà. Ammirate da Esiodo, che le chiamava le “Sette Vergini”, da Saffo, da Arato e dai primi astronomi europei. Il loro nome, in greco “gran quantità”, è comune a tutte le lingue: Kima, ammasso, lo chiamarono gli arabi. La mitologia greca colloca le sette sorelle, le Oreadi figlie di Atlante e Pleione (i nomi delle altre due stelle dell'ammasso se arrivate a contarne nove), compagne di Artemide, dea della caccia, nella costellazione del Toro (quello dell'equinozio di primavera che per gli antichi segnava l'inizio dell'anno). Il Toro è a fianco di Orione, il cacciatore mitologico che dà il nome alla più suggestiva costellazione del cielo del Nord. Nel mito il vanesio Cacciatore fronteggia il Toro e punta alle Sette Vergini.

    Da 4.000 anni le figure più espressive del cielo notturno hanno spesso nomi comuni in tutte le civiltà, anche lontane tra loro. Perché, appunto, la stessa scena notturna è comune. La classificazione delle stelle nasce con l'osservazione umana, ben prima degli abitanti di Nebra e dei Neolitici. In modo indipendente alle varie latitudini le stesse figure, asterismi, forme celesti sono raffigurate nelle grotte del paleolitico, negli altari megalitici fra il V e il III millennio a.C. in Europa, in Mesopotamia come in America Latina. Testimoniano di quel nesso tra meraviglia e sapere, di cui parlavano Ovidio ed Aristotele: alzati gli occhi al cielo, l'uomo imparò subito a convivere con lo stupore, sviluppò tecnica e ingegneria visiva. E sviluppò gli usi utili degli oggetti celesti e dei moti nel cielo: calendari, orologi, guida del viaggio. La cultura del cielo nasce come astrologia e religione: l'uomo impara dal cielo facendolo amico. E impara, soprattutto, a organizzare la scena notturna: i primi telescopi (da tele-scopio, guardare lontano) furono i monumenti megalitici. Servivano a organizzare la migliore prospettiva sul cielo notturno: a Debra come a Stonehenge o a Gosek. Il primitivo telescopio megalitico era uno spazio enorme: organizzava porzioni di cielo. Il sito di Debra è un edificio virtualmente esteso: dal Mittelberg, la montagna sassone su cui è collocato, proietta la vista del Sole nella prospettiva del Monte Broken, 1.142 metri, il più alto della Germania settentrionale, a ben 85 Km. La cima del Broken fungeva da guida, quasi un primitivo sestante.

    Poniamoci idealmente al centro di quell'altare sul Mittelberg, e guardiamo la prospettiva del Broken: fisseremmo la stessa scena che, un osservatore di 3.600 anni fa, scolpì su una piastra di bronzo. E' questa costanza del cielo notturno che fa riflettere. Alle diverse latitudini dell'emisfero, uomini diversi osservavano una scena con gli stessi essenziali ingredienti. Un evento ripetuto ogni notte, per centinaia di migliaia di anni, con le stesse figure dominanti: le due Orse, Orione, le Pleiadi, Venere e Mercurio, le stelle del mattino, l'imperioso Giove. La scena notturna, con lo scorrere del tempo, diventa quello che i filosofi alessandrini definiranno archetipo: un marchio. Negli 11 mila anni della civilizzazione l'uomo ha visto cambiare il paesaggio, la natura terrestre che lo circonda, con il suo imprinting. La natura è stata sempre plasmata e riconfigurata dall'uomo. Il cielo no. Su di esso sapiens non ha potere, può solo stupirsi. E tentare di farselo amico.

    Contare e mappare le stelle lassù di notte

    “Nessuna tenebra dura per sempre. E anche nell'oscurità c'è sempre una stella” (Ursula Le Guin)

    Fino al 1600, alla scoperta del cannocchiale, l'uomo ha usato per 30 secoli, per osservare il cielo, una macchina naturale sorprendente: il proprio occhio. Sembra predisposto per osservare il cielo notturno. Ha una struttura a “camera oscura” che cambia: di notte dilata (fino a 5 volte) il diametro della pupilla, come fosse un diagramma, per lasciare entrare più luce nell'occhio.