Comete e bagliori

    Nella perfezione sferica, nel moto uniforme ed eterno delle sfere, si riflette l'immagine divina dell'eternità. Sul platonismo Aristotele erige il suo modello, perfezionato poi scientificamente da Tolomeo (100 d.C.-175 d.C.): la Terra al centro dell'universo, pieno dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) che si muovono di moto imperfetto (basso-alto o alto-basso) e, intorno, sette cieli sferici: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Per essi il moto è perfetto: circolare, uniforme, senza inizio né fine. Il cielo delle sfere è chiuso dalle stelle fisse: incorporee, puntuali, gemme preziose. Quello di Aristotele e Tolomeo è un cosmo unico finito. Ma diviso: la Terra, imperfetta e corrotta, è luogo di cambiamenti; il mondo sopralunare, sferico e perfetto, è luogo di stabilità e moto uniforme. Ma il cosmo aristotelico è, soprattutto, pieno. Aristotele ha orrore del vuoto. E quegli spazi scuri che vediamo tra le stelle? E quel vuoto che vediamo tra noi la Luna, il Sole, i pianeti? Inganno, risponde Aristotele. Se ci fosse vuoto tra le cose, tra i pianeti, tra la Luna e la Terra non ci sarebbe movimento: né quello imperfetto e rettilineo delle cose terrestri, né quello circolare, uniforme delle cose celesti. Aristotele non concepisce l'inerzia, il moto proprio. Alla domanda più ovvia che la vista del cielo solleva, a menti adulte come a un bambino: – come fa a muoversi la Luna? Come fa a girarci intorno, e non scappa via – dà una risposta razionale, di buon senso: deve esserci, afferma, una causa fisica che muove le cose. Non possiamo pensare che sia, come voleva Pitagora, il numero o il ritmo a spingerli. Troppo speculativo. A spingere le cose è un elemento, una sostanza che riempie lo spazio e funge da forza e da mezzo, che le cose attraversano per andare da un luogo a un altro. Del resto: ogni cosa sarebbe immobile e ferma, in eterno al suo posto, se non ci fosse un mezzo attraversando il quale le particelle di materia sono costrette a muoversi, non ci sarebbe il suono senza l'aria. Vale per tutto. L'universo di Aristotele è un meccano delle sfere – ne conterà 22 con le sette principali – ma è l'etere che spinge le sfere. Incomposto, ingenerato, eterno, invisibile, senza peso, caratteristiche che per Aristotele lo fanno una sostanza divina, l'etere riempie l'universo, gli dà pienezza e sostanza, elimina il vuoto che renderebbe insensato e impossibile il movimento. Dopo acqua, aria, terra e fuoco, l'etere è la quinta essenza: il pieno, il mezzo che spinge i corpi e fa sì che le sfere si muovano armonicamente. L'etere spinge le sfere, come un contadino spinge la ruota: fa sì che la Luna ritorni ogni sera e non scappi via. L'etere è la sostanza che rende possibile il motore primo: senza di esso il Demiurgo, che non è un mago o un ciarlatano, non avrebbe il mezzo per far muovere le cose. Sembra ragionevole e realistica, di senso comune la soluzione dell'etere. E infatti per 15 secoli il mondo ha creduto nella esistenza di questa sostanza impalpabile. Newton, invece, ne revocò l'utilità e la fine dell'800 la rinnegò del tutto. I nostri tempi, come vedremo, in qualche modo la riscopriranno.

    Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione

    “Lo scopo primario di tutte le investigazioni del mondo esterno dovrebbe essere scoprire l'ordine razionale e l'armonia che sono state imposte a esso da Dio e che lui ci ha rivelato nel linguaggio della matematica” (Giovanni Keplero)

    Ci sono congiunture magiche di libri che cambiano il mondo. La visione del cielo si sconvolge in meno di un secolo, novant'anni: tra la pubblicazione del De revolutionibus orbium celestium di Copernico nel 1543, e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo del 1632. L'edificio del cosmo aristotelico, durato 14 secoli, si sfarina. Tutto si deve a quattro astronomi, fisici e matematici, che demoliscono l'universo speculativo di Aristotele, ne denunciano l'imprecisione, il pressappochismo: Niccolò Copernico (1473-1543), Galileo Galilei (1564-1642), Giovanni Keplero (1571-1630) e Tyco Brahe (1546-1601). Grazie a loro l'immagine del cielo cambia. Tutto si deve, a pensarci bene, a un fatto: nel cielo, quello dove secondo Aristotele nulla può cambiare, appaiono cose nuove. Nel novembre 1572 uno spettacolo, incredibile e inedito, sorprese il mondo: un oggetto luminosissimo, come fosse una stella nuova, visibile perfino di giorno, apparve all'improvviso in alto, nella costellazione di Cassiopea. Un giovane astronomo danese, Tyco Brahe, che il mondo conoscerà come Ticone, osservò: quella stella, che lui battezzò nova, non è sublunare, non è un fenomeno atmosferico. Infatti, guardata con il metodo della parallasse (il sistema per esaminare la posizione degli oggetti in cielo), la posizione non cambia, dunque, è lontanissima. Come le stelle. Pubblicò un opuscolo, De Stella Nova (1573) sul nuovo oggetto. Lo rese famoso. Noi oggi sappiamo che era veramente una stella. Non nuova, però: era una stella morente, la supernova esplosa che sarà catalogata SN 1572. Brahe, dopo la scoperta, divenne astronomo di professione. Federico II, re di Danimarca e Norvegia, gli regalò l'isola di Hven. Il fisico danese vi edificò un palazzo-osservatorio, Uraniborg, una meraviglia tecnologica dell'epoca. Fu il primo istituto di ricerca europea, una sorta di Cern del '600 o di Nasa, visti i budget su cui fu in grado di contare l'ambiziosissimo programma di ricerca di Tyco Brahe. Anche Keplero, dopo pochi anni, nel 1604 osservò una stella nova, stavolta nel cielo dell'Ofiuco. Nel 1577, poi, si presentò al mondo un altro fenomeno inedito: una spettacolare cometa (da allora nota come Grande Cometa). Anch'essa non apparteneva al cielo sublunare. Tyco Brahe ne fece uno studio attento e ne osservò la traiettoria. Farà lo stesso con un'altra cometa del 1584. Come le novae, si rese conto, le comete erano eventi del cielo delle stelle fisse. Che dunque, osservò, non era affatto etereo e immutabile. E non era fatto di sfere solide: la cometa attraversava liberamente il cielo delle stelle fisse, senza incontrare ostacoli. “La macchina del cielo – osservò – non è un corpo, duro e impenetrabile, di sfere reali come i più hanno creduto fino ad oggi”. Fu il colpo definitivo al cielo medievale e l'apertura a quello moderno. Brahe fu l'ultimo dei tolemaici – manteneva la Terra al centro dell'universo – ma il primo dei copernicani: nella sua macchina del cielo, tutti i pianeti, tranne la Terra, orbitavano intorno al Sole. L'orologeria barocca tolemaica si accompagnava all'acuta premonizione del nuovo. Keplero, ormai affascinato da Ticone, osservò un'altra cometa nel 1619 (diventerà famosa come cometa di Halley). Ne ricavò una sorprendente conclusione, che rivoluzionava la visione del Sole: la spettacolare coda delle comete, un mistero sino ad allora, era dovuta al vento solare. Il Sole emana un vento di particelle che, soffiando sulla cometa, estrae da essa i materiali volatili. Illuminati e sublimati, essi formano la chioma della cometa, che le dà l'aspetto affascinante che conosciamo. La “scandalosa” potenza, attribuita al Sole, una sorte di Motore Primo, valse a Keplero la diffidenza e il disprezzo dei dogmatici: non era l'etere né astratti motori primi a muovere le cose ma il Sole. Keplero dava al Sole, che Copernico aveva posto al centro, anche il potere di insufflare la vita. Non solo, nel cielo, detronizzato Aristotele, faceva capolino, con la potenza del Sole, la gravità.

    Passarono 47 anni tra la nova di Ticone e la cometa del 1619 osservata da Keplero. Con due novae e due grandi comete osservate. Davvero una fortunata coincidenza. Mentre le comete erano consuete le novae, per occhi terrestri, sono rarissime. Si ipotizza che, nella Galassia, dovremmo assistere a un episodio per secolo (poi abbassato a 55 anni). Ma da 415 anni non ne abbiamo visto uno. Col tempo abbiamo imparato a distinguere tra nove e supernove. Due fenomeni diversi. Le nove sono causate in prevalenza da stelle chiamate nana bianca (stelle di media dimensione, come il Sole, collassate) che attirano il gas d'idrogeno di grandi stelle vicine fino a gonfiarsi ed esplodere: apparendo nel cielo come bianchissime stelle nuove. Le supernove, invece, sono eventi più spettacolari e distruttivi. Riguardano stelle più massive. Di nove nella Via Lattea dovrebbero verificarsene una dozzina all'anno, di supernove, invece, assai di meno. Sono molto più comuni nelle altre galassie. Oggi con gli strumenti osservativi gli astronomi registrano più episodi. Le galassie a spirale, come la nostra, contengono molte più stelle, quindi in assoluto le esplosioni di nove (stella più anziane) dovrebbero essere più frequenti. Le supernove (stelle massicce e più giovani) sono in numero minore. Eppure, a occhi nudi, non c'è in cielo episodio più raro che le nove o le supernove. In duemila anni abbiamo avuto, soltanto, otto eventi registrati: oltre le stelle nove del 1572 e del 1604, osservate da Ticone e Keplero, c'è notizia di ben cinque nove registrate in periodo anteriore (nel 185, 369, 1006, 1054, 1181). E solo una successivamente, nel 1660. Quasi tutte registrate da astronomi cinesi. Quindi ben tre in un secolo (tra la metà del 1500 e del 1600). Ma nessuna nei 400 anni che ci separano dall'ultima nova osservata. Un mistero. Si fanno varie ipotesi: la polvere stellare che impedisce la vista; la lontananza (le stelle sono più numerose nel lontanissimo centro galattico). Più che aspettarci di vederle, date le distanze, le supernove dovremmo “ascoltarle”: emettono onde radio ma anche raggi X, gamma e infrarossi. Telescopi terrestri e satellitari hanno, ormai, potenziato quelli ottici nella lettura del cielo. Talvolta ci imbattiamo (grazie ai telescopi nello spazio) nei residui dell'esplosione. L'esplosione del 1054, registrata dagli astronomi cinesi come stella nova, l'abbiamo ritrovata immortalata, alla fine del nostro secolo, dal telescopio spaziale Hubble, come Nebulosa del Granchio (a 6500 anni luce): la foto più bella e suggestiva del fantastico album del glorioso telescopio.

    La foto di un evento di mille anni fa, come fosse in svolgimento, ci mette davanti il tema del tempo nell'universo. Il passato, nel cosmo, sembra non finire da nessuna parte ma sta lì, ghiacciato e fermo in cielo. Ma noi potremmo assistere allo spettacolo di una supernova? E sarebbe piacevole? Dovrebbe esserci un episodio per secolo (c'è chi dice tre). Intanto, stavolta saremo avvisati in anticipo: catturando il burst di neutrini, li ricordate, che la supernova emette o cogliendo segnali nell'infrarosso, che penetrano la polvere cosmica, oppure registrando onde gravitazionali che l'esplosione procura. Il sospettato numero uno, per una “vicina” esplosione di supernova è la bellissima Betelguese, a 640 anni luce da noi. E' una stella moribonda, in fase terminale. La sua temperatura superficiale è segno che il combustibile (idrogeno) sta per esaurirsi e, quindi, il collasso è vicino. Per le sue dimensioni (10/15 masse solari) non finirà, si pensa, come buco nero. Consoliamoci, sarebbe il buco nero più vicino a noi. Morirà, invece, come stella di neutroni. Torneremo su queste definizioni. C'è anche Antares (604 anni luce), nella costellazione dello Scorpione. E' mostruosamente grande: se fosse al posto del Sole arriverebbe a inghiottire Giove. Potrebbe finire come buco nero. E sarebbe il più vicino. E c'è Eta Carinae (8.000 anni luce), nella costellazione australe della Carena, una delle più grandi stelle conosciute (100 volte la massa del Sole). L'esplosione di supernova equivale alla potenza di centinaia di bombe atomiche, con effetti assai estesi. Pensate che la nebulosa del Granchio, l'esplosione del 1054, si propaga per 5,5 anni luce. Ma per farci veramente del male, si ritiene che una supernova dovrebbe esplodere a meno di 50 anni luce da noi. Tutte le supergiganti che abbiamo citato, candidate alla mega esplosione, sono troppo lontane per impensierirci. E non ci sono stelle, nelle vicinanze, destinate a esplodere, come supernove, nel prossimo miliardo di anni. Comunque, anche un'esplosione lontana di supernova non sarà un solletico: lo strato di ozono (che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette) potrebbe ridursi e, inoltre, per sensori e telecomunicazioni potrebbero esserci problemi. Infine, per non farci mancare nulla, si teme che le stelle eccezionalmente grandi, Eta Carinae per esempio, potrebbero anche finire come ipernove: con un'esplosione di energia 100 volte superiore alle supernove. E irraggiare nello spazio i preoccupanti gamma rays burst. Il pericolo, in questo caso, si allarga a 10.000 anni luce. Ma dovremmo essere perfettamente allineati con la sorgente. E pare che non sia così.