E se il finale come concetto in sé avesse fatto il suo tempo? Provocazioni

    I l romanzo o la raccolta di racconti come rappresentazione univoca di un mondo – o meglio, la rappresentabilità di un intero mondo attraverso di essi – entra già in crisi dopo i fasti ottocenteschi, trovando, nel modernismo, due possibili soluzioni, di segno opposto: il “dire tutto per esteso” della Recherche e il “dire tutto in modo centrifugato” dell'Ulisse. Soluzioni che sono però anche capolinea, stazioni terminali dopo le quali il romanzo, e in generale la letteratura, hanno dovuto rinunciare alla pretesa dell'esaustività: di fronte a un mondo fattosi complesso, poroso, liquido, esploso e interconnesso, il campo perfettamente definito messo in campo, poniamo, da un Tolstoj nel descrivere l'universo delle corti russe, diventa impossibile da attuare di nuovo. Con l'avvento del postmodernismo, anzi, viene messa in discussione la stessa sensatezza di un “testo letterario compiuto” – anche il poco e tardivo postmoderno italiano ce ne parla: si veda ad esempio Se una notte d'inverno un viaggiatore –, e il finale catartico che chiude ogni linea narrativa assomiglia sempre più a un dispositivo adatto al solo romanzo commerciale. E poi, siamo davvero sicuri che le opere debbano essere finite per funzionare? Un possibile canone dell'incompiuto includerebbe l'Eneide di Virgilio, I racconti di Canterbury di Chaucer, Bouvard e Pécuchet di Flaubert, Le anime morte di Gogol', passerebbe dagli anni del modernismo raccogliendo buona parte del meglio – Il processo, Il castello e America di Kafka nonché L'uomo senza qualità di Musil – e arriverebbe fino al 2666 di Bolaño senza mancare di toccare i piani alti di diversi comparti nazionali (da noi, ad esempio, Petrolio di Pasolini e Il partigiano Johnny di Fenoglio). Nulla da invidiare, dunque, al canone “compiuto”. Così, oggi, di fronte alle tante bizzarrie che propone Black village di Lutz Bassmann, appena uscito per 66thand2nd – il fatto che sia firmato dall'eteronimo di un autore, Antoine Volodine, che già scrive sotto pseudonimo; il suo appartenere a un genere esso pure finzionale, il “post esotismo”; l'essere ambientato in un mondo liminale, dal sentore di Libro tibetano dei morti, in cui realtà, sogno e aldilà si mescolano continuamente; l'essere composto integralmente da racconti (anzi, da “zaconti”, perché l'opus volodiniano propone anche le sue proprie forme) incompiuti –, è forse quest'ultima quella che più impone attenzione sul libro. Il lettore che già conosce Volodine e i suoi eteronimi – in Italia è stato l'imponente romanzo Terminus radioso a renderlo noto al grande pubblico – troverà tutti i temi dell'autore, dato che la sua produzione rassomiglia a una sorta di frattale in cui ogni libro è, a suo modo, una summa del post esotismo, e quindi non mancano illusioni rivoluzionarie perdute, paesaggi urbani devastati in cui si nascondono perseguitati politici, lande post apocalittiche ad alto tasso di radioattività, ibridi uomo-animale, botanica fantastica, omaggi alla fantascienza classica, lampi di surrealismo, continui scambi di posizione tra vivi e morti. Ma sbaglierebbe chi pensasse che Black village sia “solo” un mattoncino del grande edificio post esotico (che oggi, in Italia, ammonta già a nove libri: i cinque pubblicati da 66thand2nd – oltre a questo e al succitato Terminus radioso, anche Il post esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, Gli animali che amiamo e il recente Sogni di Mevlidò –, i tre Clichy – Scrittori, Lisbona ultima frontiera e Undici sogni neri, firmato dall'eteronimo Manuela Draeger – e Angeli minori, uscito per L'Orma): la commistione selvaggia di generi presente nei brani, unita al fatto di essere deliberatamente incompiuti – di passare, quindi, dallo stato di “zaconti” a quello di “interruptat”, per usare il vocabolario volodiniano – finisce per dirci qualcosa di assai rilevante sullo stato, sulle possibilità e sulle necessità della narrativa contemporanea.

    Vanni Santoni