La Spagna ideologica
Milano. Per decenni la España roja e la España azul hanno continuato a fronteggiarsi, anche in democrazia. La loro indelebile bicromia guerracivilista colorava lungo linee invisibili le città, i quartieri e le famiglie: qui si versavano secchiate di rosso no pasarán!, là resistevano ampie chiazze di azzurro nostalgia. Non era altro che una versione iberica del nostro “comunista!”/“fascista!”, alimentata dalla vicinanza temporale con la dittatura e resa più ruvida dalla morbidezza del passaggio alla democrazia. Eppure, da qualche anno, con un Partito socialista che aveva smussato molti zapaterismi, con un Partito popolare demuscolarizzato dopo la lunga e vincente narcosi rajoyana, con un Podemos che si era accomodato nel ruolo di organizzatore di “brand civici” per guidare le grandi città (con Ada Colau a Barcellona e con Manuela Carmena a Madrid), il galeone spagnolo sembrava aver gettato l’ancora in uno stagno post-ideologico. Uno stagno in cui la salute economica sembrava non avere un rapporto diretto con l’indirizzo politico dei governi e neppure con la loro esistenza. Uno stagno in cui l’ultradestra populista stentava più che altrove e in cui la rana più pimpante sembrava quella di Ciudadanos. Al netto della sua originaria radice di single issue party regionale dedicato all’antiseparatismo in Catalogna, nella sua proiezione nazionale il partito guidato da Albert Rivera si presentava infatti come l’interprete perfetto del nuovo clima post ideologico: liberali (in mancanza di meglio), urbani, giovani, senza esperienze politiche pregresse, un po’ progressisti, un po’ conservatori e molto confusi, i Ciudadanos avevano cominciato a svenare – almeno nei sondaggi se non nella realtà – il Psoe e il Pp. Poi si è riacutizzata la crisi catalana. E, non bastasse, si è ricominciato a disegnare la topografia destra-sinistra direttamente a cavalcioni della bara riesumata di Francisco Franco. E, allora, adios post ideologia.
Il dibattito politico e soprattutto mediatico che ha accompagnato la Spagna dalle elezioni senza esito dell’aprile scorso a quelle di dopodomani – e specie nell’ultimo mese, dopo le condanne dei leader separatisti che hanno reso di nuovo incandescente la crisi tra Madrid e Barcellona – si riassume con una parola: Catalogna. E se la parola è Catalogna ogni post-ideologismo va in archivio. Perché la crisi catalana, complice il sistema dell’informazione, aizza passioni, porta a dirle grosse, facilita, proprio per la sua complessità inestricabile, il successo di parole d’ordine facilone e sollecita ogni partito a esibire una posizione ideologica ben riconoscibile. Podemos non è contrario a un referendum di autodeterminazione, e questa in Spagna è già un’affermazione estremista. Il Psoe, che, pur opponendosi a qualunque ipotesi di frammentazione territoriale, da anni parla di dialogo e allude addirittura a possibili soluzioni federali, in campagna elettorale si è trasformato e per nutrire l’opinione pubblica e l’informazione drogate di parole fiammeggianti ecco che Pedro Sánchez, in preda a un momento allucinatorio da capo dell’Interpol, ha promesso in tv di riportare in Spagna il leader catalano fuggiasco Carles Puigdemont per farlo processare (poi si è scusato per la scivolata da “pieni poteri”). Il Pp sintetizza la sua posizione con un numero: 155, cioè l’articolo della Costituzione che prevede la sospensione dell’autonomia regionale, qualora il governo locale si ribelli a Madrid, un provvedimento già applicato nel 2017 da Mariano Rajoy contro l’esecutivo catalano guidato da Puigdemont.
Altro che post ideologia, qui si parla di sovranità, di nazioni, di identità, di inadeguatezza o di intoccabilità della Costituzione, di alto tradimento e di repressione. Certo, la crisi catalana non è nata ieri, ma il suo riesplodere a un passo dalla ripetizione delle elezioni politiche ha cambiato il ritmo della campagna elettorale e reso ancor più difficile immaginare il risultato. L’impressione è che da questo brodo di coltura abbia preso nuovo slancio, proprio nelle ultime ore, Vox, il partito della Turbospagna. Il suo leader Santiago Abascal, mentre tutti i suoi avversari tracciano le loro linee rosse senza curarsi di future necessità di accordi, rimastica senza complessi slogan falangisti: “Per gli spagnoli la Spagna è l’unico patrimonio e solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere una patria” (sì, proprio così, “solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere una patria”: da brividi). E quindi Vox propone lo smantellamento di ogni autonomia regionale e l’illegalizzazione di ogni partito separatista o nazionalista, compreso il Pnv basco, uno dei più antichi movimenti democristiani d’Europa. In tutto questo frastuono, Ciudadanos invece balbetta (proprio sulla Catalogna!) e cerca di opporre le sue miccette ai cannoni di Vox.
Certo in questa campagna elettorale si parla anche di altro, di economia, di fisco, di sanità, di istruzione, di immigrazione, di rapporti internazionali, ma è come se ogni partito facesse un monologo. Ogni leader elenca le sue proposte, ma gli altri ribattono appena, giusto per dovere, e il dibattito si accende davvero soltanto quando, ad esempio sulla violenza di genere, si può sventolare una qualche bandiera.
Se non c’è ideologia, non c’è interesse. Forse per questo, Sánchez, che sulla Catalogna non ha parole particolarmente forti da pronunciare, ha puntato tanto sull’esumazione di Franco che, dopo il suo irrigidimento sull’unità nazionale e dopo il suo rifiuto di una coalizione di governo con Podemos, può riaccreditarlo agli occhi dell’España roja – e persino a quelli della Catalogna repubblicana.
Chissà che invece tutta questa improvvisa Guerra civil reloaded (e per fortuna incruenta) non abbia invece stordito gli elettori e che quindi la reideologizzazione del dibattito, oltre che in un premio per il fanatismo di Vox e in un castigo per la gassosità di Ciudadanos, non si trasformi in carburante per una convergenza dei due partiti grandi e tutto sommato più moderati, il Psoe e il Pp, che, al di là dei proclami, hanno forse un’idea, ancorché vaga, di che cosa significhi governare dopo gli slogan.
Guido De Franceschi
Il Foglio sportivo - in corpore sano