“Chi considera il Mose una soluzione sbagliata dia un'alternativa”
Il senatore Zanda ripercorre i suoi anni alla presidenza del Consorzio Venezia Nuova: “Il modello olandese? E' inadeguato”
Roma. Luigi Zanda non era ancora il tesoriere del Pd, anzi il Pd neppure esisteva, quando nel 1985 fu designato, in quota Iri, a capo del Consorzio Venezia Nuova. Oggi, a un passo dall'apocalisse, si torna a ragionare sui numeri del Mose, grani di un rosario che gli italiani conoscono a memoria. “Agli inizi, la sede del Consorzio si trovava in un piccolo appartamento, si lavorava alacremente e senza sprechi”, dichiara al Foglio il senatore Zanda sfogliando l'album dei ricordi di una stagione, durata dieci anni, da presidente del gruppo delle imprese titolari, di fatto, del monopolio dei lavori. Con la legge speciale del '73 la salvaguardia di Venezia veniva proclamata “problema di preminente interesse nazionale”, e nell'80 partiva il cosiddetto “Progettone”, commissionato dal ministero dei Lavori pubblici, per conservare l'equilibro idrogeologico e abbattere le acque alte nei centri storici. “La legge da lei citata, al pari della seconda legge speciale del 1984 che introduceva lo schema della concessione, risale a un'epoca in cui il Parlamento sapeva ancora scrivere le norme. Al mio insediamento, a metà degli anni Ottanta, la concessione era già stata firmata e sul piano legale era pienamente legittima. Io stesso mi recai più volte a Bruxelles per verificarne i presupposti giuridici, interpellai la Corte dei conti per i dovuti approfondimenti”.
Le imprese del Consorzio erano le stesse a cui il Consorzio doveva rivolgersi per i lavori, a prescindere dalla convenienza economica. “La struttura giuridica era conforme alla legge. Sul piano dell'opportunità invece il dramma è cominciato quando il Consorzio ha imboccato una cattiva strada”. Si riferisce alla gestione del compianto Giovanni Mazzacurati. “Sono stato presidente per dieci anni, nel pieno di Tangentopoli, quando il Consorzio era forse l'unica grande impresa della città. Avevo creato un sistema di prevenzione: in linea generale, i subappalti erano vietati, salvo per motivi tecnici comprovati. Avevo limitato il margine degli appaltatori. Avevo incaricato un principe del foro, del rango dell'avvocato Rodolfo Gatti, di costituirsi parte civile in ogni eventuale procedimento per violazione di legge. Avevo nominato anche un comitato di garanzia composto da esimi giuristi. Non ebbi mai un richiamo da parte della procura, neanche una richiesta di audizione come persona informata dei fatti”.
In tempi più recenti, l'inchiesta scandalo avrebbe scoperchiato gli oltre 250 milioni spesi tra tangenti, fondi neri e consulenze fittizie. “Anche negli affari il fattore umano è determinante”. Lei, che ha gestito il dossier in prima persona, si è fatto un'idea se l'opera sia utile o meno? “E' un prodotto essenziale di cui Venezia non può fare a meno. Parliamo di una città fragile, che deve fronteggiare quotidianamente la durezza delle leggi idrauliche. Senza il reticolo di canali che la circondano, la laguna non sopravvivrebbe. Nel secolo scorso, due interventi l'hanno resa ancora più precaria: negli anni Cinquanta l'emungimento della falda acquifera ha comportato l'abbassamento della città di 12 cm, mentre il successivo scavo del canale per il petrolio ha innescato un fenomeno di appiattimento della laguna. Da qui l'esigenza di un continuo lavoro di manutenzione idrica”.
Per i Cinque stelle il Mose è da sempre un'opera inutile. Adesso che la città sprofonda sotto l'acqua, ci si lamenta che non sia in funzione. “Venezia genera passioni. Consiglio di usare attenzione per evitare che l'ideologia sovrasti un tema tecnico. Chi considera il Mose una soluzione sbagliata ha il dovere di indicare un'alternativa per proteggere la città dal rischio letale di maree oltre i due metri”. Il sistema delle settantotto paratie, installate sul fondale delle tre bocche di porto, è un unicum mondiale. “Città come Rotterdam o Londra, che fronteggiano il medesimo problema, applicano modelli rigidi che sarebbero inadeguati per Venezia. La conformazione lagunare impone l'esigenza di tenere aperte le bocche di ingresso (Lido, Chioggia e Malamocco), non solo per esigenze di navigazione ma anche perché non esiste un sistema di depurazione diverso da quello determinato dalle maree attraverso il ricambio dell'acqua. Con un sistema di dighe rigide, la laguna si trasformerebbe in una fogna”. Dalla nomina dei commissari nel 2015, dopo la retata della Guardia di Finanza che decapitò il sistema delle mazzette, tutto è fermo. “I tempi si sono indubbiamente dilatati. E' anche vero però che una grande opera richiede, in media, vent'anni: ne servono cinque per l'ideazione, altrettanti per la progettazione, e poi dieci per l'esecuzione vera e propria. A Venezia le prime due fasi si sono estese oltremisura”.
L'opera è completata al 94 per cento ma l'ultima tranche di 200 milioni è ferma al provveditorato per cavilli burocratici. “Da trent'anni assistiamo al progressivo deperimento delle strutture dello stato, incluse quelle tecniche. Quando ero alla guida del Consorzio, ricordo che il Consiglio superiore dei lavori pubblici cambiava presidente ogni anno, mentre il magistrato alle Acque, nel ruolo di concedente, era più debole del concessionario. I corpi tecnici di regioni e comuni non fanno eccezione”. Tutta colpa della burocrazia? “Il declino di un'amministrazione, che appare sempre più sprovvista di qualità e autonomia, è una responsabilità della politica. A seconda dei casi, si osserva questo processo restando inerti, o addirittura assecondandolo. Nel Dopoguerra l'Italia non avrebbe realizzato il boom economico senza l'azione dei grandi provveditorati alle opere pubbliche, dei grandi prefetti e dei grandi direttori in viale XX settembre. Venezia è uno spaccato della crisi del paese intero”.
L'acqua alta è soltanto la punta dell'iceberg? “La città si sta letteralmente spopolando, con una perdita, in media, di mille residenti ogni anno. Il declino economico è sotto gli occhi di tutti, i finanziamenti arrivano a singhiozzo, poi c'è il moto ondoso provocato dai motoscafi che attraversano i canali. Gli apparati tecnologici del Mose, fermi in mare da quattro anni, sono esposti ad attacchi corrosivi che rendono necessari ulteriori lavori”. Sembra un paese in apnea, sott'acqua. “Una buona metafora”.
Annalisa Chirico
Il Foglio sportivo - in corpore sano