Politica anti industriale
I n un editoriale del Corriere della Sera del 12 novembre (“Cultura della crescita: la voce che manca”) Dario Di Vico ha scritto che nel nostro paese è scoppiata la questione industriale. Basta elencare i principali dossier: rischio di chiusura dell'Ilva; corsa contro il tempo per evitare il fallimento di Alitalia; pericolo che l'intesa Fca-Peugeot penalizzi gli stabilimenti italiani; messa in vendita del gioiello Comau con possibile passaggio ai cinesi. “Di fronte alla complessità di questi dossier (e ai dati della produzione industriale in calo) – ha commentato Di Vico – il governo appare nudo, non c'è al suo interno una personalità che abbia una visione su questi temi e sia riconosciuto dalla comunità del business come un interlocutore di vaglia. Colpisce in particolare che il Pd, un partito fortemente insediato fra le élite […] e con vaste competenze “di area”, non esprima sui nodi che interessano il partito del pil un pensiero chiaro”.
Tutto ciò, in realtà, colpisce fino a un certo punto: per il semplice fatto che la sinistra italiana non ha mai avuto una cultura industriale. Valgano alcuni richiami al passato. Un pensatore al quale la sinistra marxista (culturalmente egemone da noi per alcuni decenni) si è ispirata, Antonio Gramsci, nei “Quaderni del carcere” dava assolutamente per finito il capitalismo imprenditoriale. La crisi iniziata nel 1929 aveva dimostrato, secondo Gramsci, che la separazione fra azionariato e gestione delle imprese rendeva bacata la produzione capitalistica. “Tutte le imprese sono divenute malsane”, scriveva Gramsci; e dunque per il capitalismo non c'era scampo (queste pagine di Gramsci furono pubblicate in un volumetto autonomo, “Americanismo e fordismo”, edito dall'Universale economica, che ebbe larghissima diffusione).
E' appena il caso di ricordare che negli anni del Dopoguerra il Pci fece una esaltazione delirante delle economie “socialiste”, che avevano reso possibili, nell'Urss e nei paesi satelliti, progressi economici grandiosi, mentre in Italia l'economia arrancava (ma poi venne il “miracolo economico”, che il Pci non aveva previsto in nessun modo).
I socialisti, a loro volta, quando si staccarono dal Pci e avviarono la politica di centrosinistra, mostrarono di non avere una cultura industriale. Il loro ideale era costituito dalle nazionalizzazioni delle industrie e dei servizi, e uno dei principali strateghi del nuovo corso, Riccardo Lombardi, dichiarò tranquillamente che le “riforme” del centrosinistra dovevano preparare il passaggio a una… società socialista!
Né le cose andavano meglio nel mondo cattolico e nella Democrazia cristiana. Chiusa la fase assai positiva del “centrismo” degasperiano (in cui ebbe un ruolo fondamentale il liberale Luigi Einaudi), si imposero largamente personalità politiche che erano state legate a Giuseppe Dossetti. Non sarà fuori luogo ricordare che sulla rivista di quest'ultimo, “Cronache sociali” (palestra di La Pira, di Fanfani, di Moro, ecc.), si potevano leggere articoli stupefacenti in cui si affermava che i valori cristiani erano in contrasto più col capitalismo che col socialismo, e che l'Unione sovietica era più vitale degli Stati Uniti d'America, dove mancavano “grandi passioni spirituali”, dove “la scuola non vibrava” e dove, insomma, dominava una generale “atonia intellettuale”.
Durante la segreteria di Fanfani, la Dc dilatò più che poté il settore pubblico dell'economia, che veniva ad aggiungersi all'Iri (creata dal fascismo), che già deteneva banche, fabbriche e cantieri. E negli anni successivi si continuò sullo stesso binario, al punto che nel 1970 il settore pubblico assorbiva il 36,7 per cento del pil, nel 1980 ne assorbiva il 43,6 per cento, nel 1992 il 57,6 per cento. Un intervento economico pubblico di queste proporzioni (con gli enormi sprechi connessi) non si verificava in nessun paese dell'Europa occidentale.
Con questi precedenti si capisce bene come la sinistra italiana attuale (erede del Pci e della sinistra democristiana) non abbia una cultura industriale.
E la destra? La destra ha dimostrato, col governo Salvini-Di Maio (il Conte 1), di essere del tutto incapace di considerare i problemi della crescita economica (da noi ferma da più di vent'anni). La quota 100 per le pensioni e il Reddito di cittadinanza sono stati provvedimenti puramente assistenziali, che hanno comportato una dispersione enorme di risorse ai danni delle imprese e del loro sviluppo.
Tutto ciò è il risultato della mancanza di una cultura industriale nella nostra classe politica. Credo che abbia ragione Angelo Panebianco quando scrive (sul Corriere della sera del 10 novembre) che in Italia “un'ideologia anti industriale, sempre esistita, e diffusa in varie aree geografiche e sociali, ha favorito una stagnazione economica decennale, e, a sua volta, quella stagnazione ha rafforzato la suddetta ideologia”. Speriamo che questo andazzo non continui, e che i 5 stelle non trionfino col loro insensato ideale di una “decrescita felice”.
Giuseppe Bedeschi
Il Foglio sportivo - in corpore sano