Dallo stato innovatore allo stato rigattiere, ecco l'Iri 2.0 del M5s
I politici – diceva Nikita Kruscev – sono gli stessi ovunque: promettono di costruire ponti anche dove non ci sono fiumi. Chissà come avrebbe commentato la trovata del ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, che ha riesumato l'Iri in relazione alle tante crisi industriali, dall'Alitalia all'ex Ilva. “Da un lato ci si dice che dobbiamo difendere l'interesse nazionale – ha detto – dall'altro quando si pensa all'ingresso dello stato in certe tipologie di produzioni ci si dice ‘eh, ma voi state tornando all'Iri'. Se serve sì”. C'è, in queste parole, un triplice equivoco, che non può essere scusato neppure dall'apparente inconsapevolezza sull'enormità della dichiarazione.
In primo luogo, tutte le imprese felici si assomigliano, ma ciascuna impresa in crisi lo è a modo suo. Se per Alitalia – come ha detto Giuseppe Conte – “non c'è una soluzione di mercato”, la ragione è semplicemente che quell'azienda ha un modello di business e una struttura dei costi che sono incompatibili con la realtà. La sua performance non dipende in prima battuta dall'azionista pubblico o privato, ma da quello che fa e come lo fa: se lo stato ne prendesse il controllo (direttamente o attraverso le Ferrovie) non potrebbe renderla profittevole, ma solo assorbirne le perdite – ciò che peraltro sta già accadendo per interposta amministrazione straordinaria. Nel caso di Ilva, invece, l'intervento pubblico maldestro è la causa, non la soluzione, dei problemi: se non fosse stato eliminato lo scudo penale, ArcelorMittal sarebbe tenuta a rispettare il contratto che ha sottoscritto in esito alla gara del 2017. Nel caso di inadempienze contrattuali, il governo potrebbe chiederne conto. Al momento non sappiamo se l'ingresso dello stato nel capitale, di fianco o al posto di Mittal, sia inevitabile, ma di certo è diventato un'opzione concreta per effetto delle intemperanze della politica. Le concessionarie autostradali – per le quali pure si è ventilata la nazionalizzazione – hanno obblighi che derivano dalla concessione stessa. Se vi vengono meno, ci sono le procedure per fare giustizia ed eventualmente per estrometterle: ma in tal caso la logica conclusione sarebbe quella di avviare le procedure di gara per riassegnare la concessione, magari evitando di ripetere gli errori che hanno prodotto, in taluni casi, un'oggettiva condizione di rendita. Non esiste alcuna garanzia che lo stato sarebbe un gestore migliore, anzi. Proprio l'esperienza dell'Iri e della sua degenerazione, ben ricostruita da Franco Debenedetti nel suo “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” (Marsilio), dovrebbe rappresentare un monito ineludibile su quale sia l'esito inevitabile.
Questo ci conduce al secondo tema. Che il ritorno all'epoca delle partecipazioni statali sia foriera di disastri non è una mera possibilità; è pressoché una certezza. Il problema ha sia una dimensione ampia, sia una specifica del nostro paese. In generale, la proprietà pubblica è associata a inefficienze ed extracosti. Quando Margaret Thatcher arrivò a Downing Street nel 1979, chiese alla Monopolies and Mergers Commission un rapporto sulle imprese pubbliche: ne emerse un quadro devastante, che rese possibile e doverosa la successiva politica di privatizzazioni. Naturalmente possono esistere imprese pubbliche efficienti, ma è più facile il contrario perché l'azionariato pubblico trasmette agli stakeholder – management, sindacati, fornitori – sia un senso di impossibilità di fallire, sia la certezza della non-contendibilità. Quando non c'è il gatto della concorrenza i topi pubblici ballano, soprattutto nei paesi che hanno un settore pubblico di bassa qualità e incapace di esercitare un controllo adeguato. Ora, i problemi di produttività del nostro paese – fotografati impietosamente dall'Istat nel rapporto rilasciato l'altro ieri – nascono, tra l'altro, proprio dalla cattiva allocazione dei fattori e, in particolare, del capitale. Vuol dire che i mezzi di produzione sono utilizzati in modo inefficiente, e che – se li impiegassimo meglio – potremmo liberare quegli spiriti animali che soli possono creare ricchezza e occupazione. Questo problema ha molte facce, ma una di esse sta proprio negli enormi ostacoli al fallimento delle imprese inefficienti (citofonare Alitalia) o ai cambi di controllo di quelle relativamente più produttive (si pensi all'uso di Cassa depositi e prestiti come bullo di quartiere per impedire i takeover ostili in borsa, o alle recenti estensioni del golden power, o ancora ai vari fondi anti-delocalizzazione e norme anti-scalate…). Senza una riallocazione dei fattori non può esserci sviluppo: ma l'ingresso dello stato nel capitale delle imprese è proprio finalizzato a impedire che ciò accada. Se questo il perimetro dell'intervento pubblico, la crisi di produttività non è una patologia: è una fisiologia del sistema.
Infine, Patuanelli dovrebbe interrogare sé stesso su quale sia il reale obiettivo. Il flirt intellettuale del M5s (e parte del Pd) con l'interventismo pubblico ha più l'aspetto della storia d'amore che quello del rapporto occasionale. Non a caso, il M5s ha spesso accarezzato le idee sullo “Stato innovatore” di Mariana Mazzucato & Co., che ha invitato ai suoi convegni e il cui nome è più volte circolato come possibile ministro. Bene, il paradosso è che – partendo dallo stato innovatore – si arriva alla proprietà pubblica di imprese che di innovativo non hanno nulla se non la fantasia con cui riescono a trasformare i socializzare propri buchi di bilancio. C'è, in questa fatalità, una lezione per il M5s e il paese intero: la retorica dello stato innovatore può essere seducente, ma in ultima analisi è solo un paravento dietro cui si nasconde lo stato rigattiere.
Carlo Stagnaro
Il Foglio sportivo - in corpore sano