Google senza Brin&Page sancisce la leadership normalizzata della Silicon Valley
Milano. La notizia dell'abbandono di Larry Page e Sergey Brin da tutti i ruoli operativi dentro ad Alphabet, la società madre di Google, è stata inattesa ma non sorprendente. I due cofondatori, rispettivamente ceo e presidente di Alphabet, da anni non si occupavano della quotidianità dell'azienda, avevano cominciato a disertare le riunioni periodiche con i dipendenti, avevano lasciato che il volto pubblico e il fulcro strategico del gruppo fosse Sundar Pichai, l'attuale ceo di Google, che da ieri è diventato anche ceo di Alphabet. Brin e Page, che quando hanno fondato Google nel 1998 erano due dottorandi a Stanford e che hanno impiegato anni a liberare le scrivanie negli uffici dell'università anche dopo essere diventati miliardari, non sono mai stati manager. Fin dagli inizi questo ruolo era stato affidato a Eric Schmidt, veterano della Silicon Valley con una lunga carriera alle spalle, che si era preso la responsabilità di trasformare Google in una macchina da soldi mentre Brin e Page andavano in giro in roller blade per i corridoi di Mountain View, rimuginavano algoritmi, sognavano “moonshot”, diventavano il simbolo di un'azienda innovativa fuori dagli schemi. Questo sistema poteva funzionare finché Google era il gigante spensierato di pochi anni fa, quello del “Don't be evil”, quello di una Silicon Valley che era ancora il luogo dei sogni.
Oggi Google è un'altra azienda. E' uno dei business più ricchi del mondo e ha una posizione da difendere – non tanto dalla concorrenza, quella manca, ma dalla regolamentazione e dallo scontento interno dei dipendenti. Brin e Page, i due visionari di Stanford che avevano il sogno di rendere internet – e dunque il mondo – intellegibile, sono stati sostituiti da Sundar Pichai, che non è altrettanto visionario, non ha lo stesso talento nell'esplorare nuovi universi dell'innovazione, ma è uno dei migliori manager e strateghi digitali del mondo. Brin e Page, assieme a Schmidt, hanno inventato il modo in cui si fa business su internet e molte altre cose. Da Pichai non ci si aspetta altrettanto. Pichai ha il compito di guidare una compagnia complessa e piena di talento in un periodo turbolento, curando ciò che c'è di buono – come farebbe l'amministratore delegato di qualunque altro business in qualunque altro settore. Ieri l'analista Ben Thompson già scriveva nella sua newsletter della possibilità che Google cominci a disinteressarsi dei “moonshot”, dei progetti scientifici pazzi e in perdita voluti da Brin e Page, per concentrarsi sul core business: innovare di meno e fatturare di più.
Con l'abbandono di Brin e Page la normalizzazione della Silicon Valley è quasi completata. La valle dei sogni un tempo era abitata da visionari mitologici, oggi è sorretta da manager competenti. Dentro ad Apple, dopo la morte prematura di Steve Jobs, è arrivato Tim Cook, che è un eccezionale gestore ma non esattamente un innovatore. Microsoft è passato da Bill Gates e Steve Ballmer a Satya Nadella, che ha salvato la compagnia con eccellenti doti manageriali e di interpretazione del mercato, ma senza una visione eccitante del futuro. Travis Kalanick di Uber, nonostante la cultura tossica e predatoria che aveva instaurato nell'azienda, era comunque il leader che ha creato da zero la sharing economy: le sue dimissioni sono state sacrosante, ma con il nuovo ceo Dara Khosrowshahi Uber ha abbandonato lo spirito pionieristico e si è concentrato sul far soldi (meglio: sul coprire le perdite). Dei ceo/fondatori delle origini sono rimasti Mark Zuckerberg di Facebook e, a Seattle, Jeff Bezos di Amazon. Ma intorno a loro la Silicon Valley si va normalizzando. Si riempie di manager e amministratori, chiamati a difendere le posizioni di dominio conquistate in due decenni di sogni realizzati.
Eugenio Cau
Il Foglio sportivo - in corpore sano