Signori ma non troppo
Se siamo una società signorile di massa è pur vero che non si sono mai visti dei signori tanto disperati (nella foto una scena di “Miseria e nobiltà”)
U ltimamente tra persone politicamente impegnate va di moda l'invito a verificare di quali e quanti privilegi si gode: moda importata dal mondo universitario americano, dove la secolare egemonia del maschio bianco, il più privilegiato di tutti, è stata messa a dura prova da sedute di autocoscienza e seminari sul cinema queer antillese. Eppure nel momento in cui arriva qualcuno che dei nostri privilegi davvero ci parla, che li documenta con dati e numeri, allora d'un tratto si alzano gli scudi. Va bene l'autocritica, ma non esageriamo. Va bene flagellarsi per le colpe dei nostri avi e sforzarsi di essere inclusivi a costo zero, ma per piacere non costringeteci ad ammettere che pure i nostri seminari e le nostre sedute di autocoscienza le stanno pagando nel migliore dei casi mamma e papà e nel peggiore una massa invisibile di donne e uomini diversamente bianchi. E' dal loro lavoro che viene estratto il plusvalore che sorseggiamo nei nostri Moscow Mule, ma per piacere facciamo finta di niente: al primo che fiata diremo che il solo privilegiato è lui, e soprattutto che non ha cuore. Quanta crudeltà ci vuole per infierire sul corpo di una classe morente, su questa piccola borghesia occidentale gonfia di risentimento, bianca sì ma di paura? Come minimo quella di un sociologo torinese.
Uscito soltanto da qualche mese, “La società signorile di massa” (La nave di Teseo) di Luca Ricolfi è già al centro di interminabili dibattiti: forse perché ci ricorda qualcosa che ci fa più comodo ignorare, tutto un tessuto d'ineguaglianze occultate dietro al nostro stile di vita. In Italia, calcola il sociologo, il numero di persone che non lavorano ha superato il numero di persone che lavorano; tra questi molti stranieri tenuti in una condizione d'ipersfruttamento. Forse anche perché nel pubblicare un libro indubbiamente importante, Ricolfi indulge in qualche moralismo di troppo. Fin dal titolo: siamo sicuri che “signorile” sia davvero il termine esatto per definire una società in cui si lavora sempre meno – lo dicono i numeri – ma nello stesso tempo si patisce l'angoscia della disoccupazione e del declassamento? Siamo signori ma non troppo, potremmo dire parafrasando Don Camillo. A causa di uno sfortunato tempismo Ricolfi, classe 1950, ha pubblicato il suo saggio proprio mentre saliva alla ribalta il tormentone “Ok boomer”, ancora una moda d'oltreoceano: espressione sprezzante con la quale i nati dopo gli anni Settanta si ritengono autorizzati a ribattere alle prediche dei figli del baby boom. E in effetti cosa vuoi rispondere a un signore che ha l'età di tuo padre e viene a dirti che consumi troppo, hai studiato male e hai aspettative irrealistiche? Ok, boomer.
Solo che il boomer ha ragione. Che consumiamo troppo in fondo ce lo aveva già fatto notare Greta Thunberg, suscitando assai meno scandalo; quanto alle aspettative irrealistiche personalmente ci ho scritto un libro intero, “Teoria della classe disagiata” (Minimum fax), che Ricolfi ha la gentilezza di citare nel suo. Da parte mia avevo già letto (con profitto) il suo precedente “L'enigma della crescita” (Mondadori), che presentava in nuce i temi di questo nonché un'intuizione fondamentale, ovvero che il benessere crea le condizioni della sua stessa crisi cancellando i fattori che avevano garantito il decollo economico. Ovvero: basso costo del lavoro, spirito di sacrificio, scarsa regolamentazione. Per dirla con una di quelle massime che girano su Internet, i tempi duri producono uomini duri e gli uomini duri producono tempi morbidi ma i tempi morbidi producono uomini morbidi e gli uomini morbidi producono tempi duri. Ricolfi illustrava il paradosso con una strana allegoria di drago-balena, “un animale in grado di produrre sia il fuoco sia l'elemento che lo spegne”, ma su questo preferisco mantenere un pietoso riserbo, dev'essere una cosa da boomer.
Forse qui si intuisce cosa ha fatto innervosire così tanto alcuni lettori. Il sociologo sembra sinceramente convinto che sarebbe opportuno deregolamentare il mercato per spingere il costo del lavoro verso il basso, recuperando di fatto quelle condizioni di sottosviluppo che erano state proficue al decollo. Possiamo chiamarla l'ipotesi-Venezia: “Bella ma non ci vivrei”. E poi chi lo dice a Marta Fana? Più che una vera soluzione, si tratta della fotografia impietosa di quella che i marxisti avrebbero definito una contraddizione strutturale del capitalismo, il paradosso per cui allo sviluppo delle forze produttive corrisponde una miseria relativa crescente. Più che una via d'uscita dalla crisi, Ricolfi propone una reductio ad absurdum di tutte le possibili vie d'uscita, un'utopia nella quale lo stato sarebbe in grado ridimensionarsi da solo e una classe di recedere volontariamente dalla propria “seconda natura” socialmente costruita. Ed ecco che nascosto sotto l'apparenza di un manifesto liberista dagli accenti quasi malthusiani, perfetto per catalizzare lo sdegno, emerge tutt'altra cosa: una lucida diagnosi del male incurabile che ci sta uccidendo.
Non si capisce l'originalità dell'approccio di Ricolfi se non si conosce da quale storia intellettuale proviene. L'autore lo confessa nelle prime pagine de “La società signorile di massa”: il suo maestro era lo storico del pensiero economico Claudio Napoleoni, marxista atipico noto per la sua incessante riflessione sul concetto di valore. Proprio da Napoleoni Ricolfi eredita il concetto di “consumo signorile”, inteso come prelievo da parte di una classe improduttiva del surplus prodotto dalla classe lavoratrice. Se la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo era servita ai marxisti (ancora fino agli anni 1960 e 1970 in Baran, Sweezy, O'Connor o ancora Mattick) per denunciare gli squilibri distributivi di cui beneficiavano la classe borghese e le burocrazie statali, Claudio Napoleoni aveva avuto l'intuizione che l'Italia fosse afflitta in modo particolarmente acuto dal morbo del lavoro improduttivo e propugnava perciò una lotta alle rendite. Mezzo secolo più tardi, Ricolfi ha provato a tirare le somme. Non stupisce che questa denuncia implicitamente marxista della “sfera della circolazione” sia diventata del tutto illeggibile per la sinistra contemporanea, che in questa sfera si è trasferita integralmente. I frutti del lavoro le arrivano come la luce di una stella lontanissima.
Né Napoleoni né Ricolfi, tuttavia, insistono abbastanza sulla dimensione geopolitica dei rapporti di sfruttamento, ampiamente studiata dalla sociologia dello sviluppo. Se la classe media occidentale gode di una rendita non è soltanto rispetto a quei tre milioni di lavoratori ipersfruttati trasferiti fisicamente sul nostro territorio, ma prima ancora rispetto ai flussi di merci e materie prime che ci arrivano dal resto del mondo. Se includessimo nelle statistiche di Ricolfi l'enorme massa di lavoro “incorporato” nei beni che consumiamo, lo squilibrio signorile apparirebbe ancora più spaventoso. In questo modo la scandalosa lettura ricolfiana — signori, noi? — non suonerebbe molto lontana da quella che era la forse più politicamente corretta denuncia dell'economista marxista Hosea Jaffe, secondo cui i lavoratori occidentali possono essere considerati sostanzialmente come la borghesia del mondo.
Insomma Ricolfi ha il merito di sollevare una questione effettivamente radicale, anche se spiace che a fronte di un'ampia letteratura sulla questione l'unico nome che gli sia parso opportuno citare, nascosto in una nota, sia quello di… Diego Fusaro: autore che ha sì insistito sulla questione dello sfruttamento della popolazione immigrata, ma per appoggiare cinicamente proprio quelle politiche di destra che hanno reso più agevole lo sfruttamento.
Oggi il problema di questa piccola borghesia mondiale, e di quella italiana in particolare, è che non sa come continuare a garantire quello sfruttamento su cui ha fondato il proprio benessere. Se Ricolfi non si rassegna all'inevitabile declino, il decorso che descrive assomiglia a una storia già vista e rivista. Il primo ad averla raccontata, alla fine del Trecento, è stato lo storico arabo Ibn Khaldun: la sua teoria dei cicli dinastici mostrava precisamente il modo in cui il rapporto tra città (improduttiva) e campagna (produttiva) tende a entrare in crisi nel momento in cui la città si consegna a una spirale di eccessive spese suntuarie. Ma come mostrano bene gli studi di Napoleoni, la distinzione tra “produttivo” e “improduttivo” è tutto fuorché oggettiva. In teoria quest'ultimo concetto definisce un'attività che non produce valore e consuma reddito, ma per oltre un secolo gli economisti si sono interrogati sul modo di fissare un criterio oggettivo per capire cosa includere e cosa no. Il lavoro artistico è produttivo o improduttivo? E il lavoro degli insegnanti, degli uffici marketing, dei barbieri? Marx sapeva che il lavoro produttivo in un certo modo di produzione potrebbe essere improduttivo in un altro, ma alla fine la vera questione è una sola: cosa posso sperare di ottenere (come individuo, classe, nazione) in cambio del mio lavoro?
Negli ultimi decenni i criteri di contabilità nazionale delle economie sviluppate hanno progressivamente promosso da improduttive a produttive sempre maggiori attività, anche per far miglior figura sui mercati creditizi: se Adam Smith individuava il maggiordomo come esempio emblematico di lavoratore improduttivo, in quanto si limitava a consumare il surplus prelevato dal suo datore di lavoro, in Italia da anni si dibatte sull'opportunità di considerare il lavoro domestico come parte integrante della ricchezza nazionale. Ecco in effetti una cosa che i numeri di Ricolfi non raccontano: tutto il lavoro informale, sommerso, familiare svolto da quelli che lui considera signori, o più spesso signore e signorine. Questo probabilmente non cambia il succo del suo discorso ma aggiunge un corollario tragico, ovvero che la nostra classe media è improduttiva anche quando lavora. Si sbatte dalla mattina alla sera ma non genera nessun surplus. Ed è soltanto quel surplus, per tornare a Ibn Khaldun, che permette alla città di approvvigionarsi presso la campagna di tutte le merci di cui ha bisogno per sopravvivere. Altrimenti muore di fame.
La tragedia della società signorile di massa non è un'operetta morale. E' la storia delle conseguenze inevitabili di alcune cause predeterminate. Il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di cittadini che lavorano? Ok boomer, ma nel frattempo c'è stata una catastrofe industriale nel processo di riproduzione del capitale umano: la sovraccumulazione di risorse private ha permesso alle famiglie di finanziare una guerra di tutti contro tutti per l'inserimento professionale dei propri figli. L'accesso ai consumi è diventato di massa? Ok boomer, ma consumare è diventata una necessità vitale sia per gli individui (che devono investire nel proprio prestigio sociale per sperare di ottenere un giorno una posizione) che per il sistema (che deve sostenere la domanda). L'economia è entrata in un regime di stagnazione? Ok boomer, ma questo è un trend ricorrente in tutte le economie avanzate, come appunto ben mostrato ne “L'enigma della crescita”, probabilmente un destino inevitabile delle economie capitalistiche.
E' così che ci dirigiamo tutti docilmente verso quello che ho chiamato “Mutuo Declassamento Assicurato”, facendo il verso a quella “Mutua Assicurata Distruzione” che minacciava il mondo durante la guerra fredda. Una trappola in cui ogni decisione razionale produce effetti perversi a livello sistemico. Cosa c'è di più razionale, in una società che remunera la competenza, che scegliere di portarsi a casa un titolo di studio? Cosa c'è di più razionale, per un individuo che ha investito così le sue risorse, che temporeggiare e rifiutare offerte lavorative poco qualificate per le quali pagherebbe un altissimo costo-opportunità? Il problema è che se tutti adottano la stessa condotta razionale, poi ci si ritrova con una massiccia inflazione delle credenziali. E di fronte a enormi investimenti che non sono soltanto economici ma anche esistenziali, è difficile prendere atto di avere pagato costi irrecuperabili e tirarsi fuori dal gioco. Quindi si continua, fino alla bancarotta. Signori si nasce, o meglio si diventa, ma soprattutto si muore. Se siamo una società signorile di massa è pur vero che non si sono mai visti dei signori tanto disperati. E' dunque questo quel che chiamano privilegio?
Il Foglio sportivo - in corpore sano