Le motivazioni su Mannino sono un altro colpo al partito della trattativa
Quel solco tracciato
M a, alla fine della giostra, quale dei due magistrati conquisterà la palma della verità giudiziaria? La vittoria incoronerà Nino Di Matteo, il pubblico ministero che, con il processo sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra, ha raccolto sul proprio nome trionfi, popolarità e centinaia di cittadinanze onorarie o finirà per premiare Marina Pitruzzella, il giudice felice e sconosciuto che ha assolto l'ex ministro Calogero Mannino e ha messo per la prima volta a nudo la miseria di una istruttoria costruita più con gli ammiccamenti ai talk-show che non secondo i rigorosi dettami della legge e della logica?
I mille faldoni che teoricamente avrebbero dovuto raccogliere prove e testimonianze sul patto scellerato tra la mafia, la politica e alcuni alti ufficiali del Ros, non sono finiti, come si ricorderà, in un unico processo. Mannino ha scelto il rito abbreviato, mentre tutti gli altri imputati – dal generale Mario Mori al generale Antonio Subranni, dall'ex senatore Marcello Dell'Utri al boss Leoluca Bagarella – hanno preferito affidarsi, con rito ordinario, al giudizio di una Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto. Credevano di potere articolare meglio la loro difesa e di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, l'assurdità di un teorema senza capo né coda, per giunta appeso a un reato abitualmente privo di consistenza: violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Invece sono finiti in un precipizio: i giudici popolari, fortemente influenzati da un circo mediatico che ha spopolato su giornali e televisioni per tutta la durata del dibattimento, hanno accolto senza fiatare le tesi dell'accusa e hanno emesso condanne durissime, comprese tra gli otto e i dodici anni di carcere. Mannino invece non solo è stato assolto in primo e secondo grado. Ma l'altro ieri ha avuto anche la soddisfazione di leggere le motivazioni con le quali i giudici di Appello fanno a pezzi la tesi di tutti quei pubblici ministeri – da Roberto Scarpinato ad Antonio Ingroia, da Nino Di Matteo e Vittorio Teresi – che nel corso degli ultimi dieci anni si sono attribuiti il merito di avere scoperchiato il pentolone maleodorante delle complicità tra il potere politico e il potere mafioso, tra alcuni infedeli servitori dello Stato e i boss più sanguinari della cupola mafiosa. Se la Corte di cassazione, come sembra ormai scontato, non troverà nulla da ridire sulle mille e cento pagine sottoscritte dalla Corte che ha assolto in appello Mannino, che ne sarà delle condanne pronunciate al termine del processo di primo grado, quello con rito ordinario, dal presidente Montalto?
Finora, sulla fantomatica trattativa, esistono due verità contrapposte e inconciliabili. Quella sottoscritta dalla Corte di assise racconta che nel 1992, l'anno maledetto delle stragi mafiose, alcuni uomini politici, e tra questi Calogero Mannino, cominciarono a temere per la propria sorte: a marzo era stato ucciso Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, e a maggio era saltato in aria con la moglie e gli uomini della scorta il giudice Giovanni Falcone; come arginare quel fiume di sangue? Spinti da Mannino e anche da altri soggetti politici – Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri non potevano certo mancare – arrivano in Sicilia gli uomini del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri con l'incarico di avviare, manco a dirlo, una trattativa, segreta e spudorata, con i feroci corleonesi di Totò Riina. Il grande mediatore sarà Vito Ciancimino, ex sindaco democristiano di Palermo e corleonese come Riina. In cambio della pax mafiosa lo Stato si impegna ad abolire per i boss il regime del carcere duro, il terribile e insopportabile 41 bis.
Ma la tesi dei due grandi accusatori, Ingroia e Di Matteo, non si ferma qui. Ci sono due corollari. Primo, gli sbirri del Ros hanno traccheggiato oltre ogni limite: avrebbero potuto arrestare Bernardo Provenzano, anche lui corleonese e latitante da oltre quarant'anni, ma in ossequio alla trattativa lo hanno lasciato liberamente scorrazzare da Mezzojuso a Castelvetrano; avrebbero potuto perquisire, dopo l'arresto, il covo di Riina ma, fedeli agli impegni presi con i boss, si sono tenuti alla larga per dare la possibilità alla cosca di nascondere i dossier più compromettenti.
Il secondo corollario sfiora un terreno ancora più insidioso: lascia intravedere la possibilità che lo sporco affare tra il generale Mori e Vito Ciancimino si sia concluso non ad agosto, come hanno sostenuto i vertici del Ros, ma a giugno, nel mese immediatamente successivo all'assassinio di Falcone; e che Paolo Borsellino, amico e collega di Falcone, sia stato ucciso a luglio, nell'attentato di Via D'Amelio, proprio perché aveva scoperto l'infame tresca: temendo la sua opposizione, i killer di Totò Riina avrebbero accelerato la sua condanna a morte.
Tutte fandonie, replicano i giudici di Appello nelle motivazioni della sentenza Mannino. A loro avviso l'ex ministro democristiano è stato vittima e non complice della mafia. Se fosse stato complice che bisogno avrebbe avuto di ricorrere alla mediazione del Ros? Da potente uomo di governo sarebbe stato nelle condizioni migliori per trattare direttamente con i boss la propria incolumità. Sul movente della trattativa, dunque, la tesi dei pubblici ministeri è a dir poco “illogica e incongruente: Calogero Mannino è estraneo a tutte le contestazioni”. Ma non finisce qui.
Come se non bastasse, dalle mille e cento pagine di motivazioni esce pulita e trasparente anche l'immagine degli ufficiali del Ros. La loro azione – scrivono i giudici – è stata esclusivamente “un'operazione investigativa di polizia giudiziaria” tesa a infiltrare Ciancimino all'interno della cosca e catturare i boss corleonesi, primo fra tutti Totò Riina, divenuto nel frattempo il capo dei capi. Il tentativo di Mori e del suo vice, Giuseppe De Donno, fu regolarmente comunicato ai superiori gerarchici e gli ufficiali impegnati nell'operazione si premurarono pure di chiedere a Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, e a Luciano Violante, a quel tempo presidente della commissione parlamentare Antimafia, una sorta di copertura politica per assicurare comunque a Ciancimino una via di uscita.
Le motivazioni della Corte d'appello demoliscono pure l'ipotesi che i colloqui con l'ex sindaco mafioso di Palermo possano avere causato indirettamente la strage di via D'Amelio. Il giudice Borsellino, che con Mori e De Donno aveva comunque un solido rapporto di fiducia, intanto era stato regolarmente informato; e quando ne ebbe a parlare, al ministero di Via Arenula, con la dottoressa Liliana Ferraro, che aveva nel frattempo preso il posto di Falcone al vertice degli Affari penali, non aveva manifestato alcun dissenso. Anzi, si era detto persino disponibile a seguire personalmente gli sviluppi della vicenda.
Che cosa potrà succedere da ora in avanti? Il processo d'Appello per gli imputati del rito ordinario è ancora in corso. Dunque è la sentenza Mannino che ormai traccia il solco. Avendo accelerato i tempi, è quella che arriverà prima in Cassazione. E se i giudici della Suprema corte ratificheranno in via definitiva l'assoluzione dell'ex ministro, la disfatta per i magistrati dell'accusa sarà totale, assoluta e irreversibile. Il teorema sarà definitivamente smontato e il ribaltamento non potrà che estendersi anche a Mori, a Subranni, a De Donno e a tutti gli sventurati che dal 2012, anno del rinvio a giudizio, vivono inchiodati a un sospetto infamante: quello di avere trescato con la mafia stragista e con i boss che hanno affogato le mani nel sangue degli innocenti.
Certamente cadranno dal piedistallo molti eroi. Alcuni dei quali, comunque, si sono già persi da soli. Ricordate Antonio Ingroia, il procuratore che credeva di avere toccato, con quell'inchiesta, il settimo cielo? Era conteso da talk-show e trasmissioni televisive, non aveva più a chi rilasciare un'intervista, scriveva libri e articoli sui giornali, interrogava con grande clamore uomini di governo e uomini di potere, arrivò a inserire tra i testimoni anche il capo dello Stato e quando credette di avere toccato la cima più alta della popolarità pensò bene di mettere a frutto i suoi successi: formò un partito e si presentò come candidato premier alle elezioni politiche del 2013. Ottenne uno zero virgola e fu la fine. Costretto a lasciare la magistratura, oggi stenta a trovare un momento di visibilità. Abituato a calpestare i grandi palcoscenici dell'opera giudiziaria, oggi canta nei matrimoni.
“La verità né venne né se ne andò, mutò l'errore” si legge in un verso di Fernando Pessoa, poeta portoghese.
Giuseppe Sottile
Il Foglio sportivo - in corpore sano