Una vita in pensione

    Roma. Al fondo, anche se non lo ammetterebbero mai, i sindacati hanno la stessa visione di Matteo Salvini: quella del lavoro come oppressione e della pensione come liberazione (e, di conseguenza, Elsa Fornero come una specie di aguzzina). Questa teoria ha un corollario, che è alla base di quota 100, secondo cui il mondo del lavoro è fisso, come se fosse un teatro: i posti sono limitati e per far sedere qualcuno c'è bisogno che qualcun altro si alzi. Così, è necessario mandare prima in pensione i più anziani per “liberare” posti per i giovani. E, seguendo la stessa logica errata – cosa che Salvini, a differenza dei sindacati, fa fino in fondo – bisogna respingere gli immigrati perché “rubano” lavoro agli italiani. Quest'idea è infondata, come dimostrano i dati del Bollettino economico della Banca d'Italia che stima un impatto negativo (-0,4 per cento) di quota 100 sull'occupazione. Al contrario per l'Italia – come si evince dalle stime di Ragioneria dello Stato, Commissione europea e Fmi – per avere un sistema pensionistico sostenibile (seppur molto oneroso) è necessario aumentare la forza lavoro e il tasso di occupazione, portandoli ai livelli degli altri paesi sviluppati dove lavorano di più sia gli over 60 sia i giovani e le donne.

    Però il punto di partenza di ogni proposta di politica economica dei sindacati sono sempre le pensioni, nel senso di un aumento generalizzato della spesa al fine di “liberare” le persone dal lavoro. Scaricando ovviamente i costi su chi resta “imprigionato” nella gabbia occupazionale, perché – forse bisogna ricordarlo – è tassando i lavoratori di oggi che si pagano i pensionati di oggi (e non attraverso i loro contributi versati ieri, che non esistono più). Così Cgil, Cisl e Uil propongono al governo, una volta esaurita la finestra triennale di quota 100, di poter andare in pensione a 62 anni con 20 anni di contributi e senza ricalcolo contributivo: una specie di Quota 82, sarebbe iniqua per chi è già andato in pensione dopo la riforma Fornero e lo sarebbe ancor di più per i giovani che in futuro mai potrebbero avere condizioni del genere. Inoltre, costerebbe una ventina di miliardi, portando la spesa pensionistica al livello più alto dell'area Ocse, oltre il 18 per cento e sopra la Grecia. Sarebbe una spesa superiore a quella di Quota 100 che, oltre a essere costata molto, si è rivelata un favore a una fascia medio-alta di lavoratori (secondo i dati dell'Inps, l'assegno medio delle 150 mila pensioni pagate con quota 100 sfiora i 2 mila euro al mese, somma più elevata per i dipendenti pubblici).

    La proposta dei sindacati è pertanto molto più onerosa della proposta avanzata dal presidente dell'Inps Pasquale Tridico, che pure è stato uno dei padri di quota 100 e che pure propone generosamente di lasciare nelle pensioni i “risparmi” (che in realtà sono minore indebitamento) di quota 100: Tridico suggerisce di consentire i prepensionamenti solo in cambio di un ricalcolo contributivo. Ma i sindacati non vogliono nessuna penalità: pensione tutta e subito (anzi, in anticipo). La cosa paradossale è che solo pochi giorni fa il segretario generale della Cgil Maurizio Landini definiva come storico il taglio del cuneo fiscale deciso dal governo (“dopo tanti anni c'è un provvedimento che aumenta il salario netto di una parte dei lavoratori dipendenti”), che però gran parte dei lavoratori ha un impatto da poche decine di euro e vale complessivamente 3 miliardi. Molto meno di quanto i sindacati vogliono spendere per le pensioni.

    Forse il governo dovrebbe seguire su questa strada: tagliare le tasse a chi produce. Liberare risorse per creare lavoro, non consumarle per liberarsi del lavoro. Se i sindacati hanno deciso di occuparsi principalmente di pensioni, qualcuno dovrà preoccuparsi di chi e come dovrà pagarle. (Luciano Capone)