Abbiamo sbagliato tutto e siamo finite in questi anni Cinquanta della ragione
I n amore vince chi non vale niente. Le ragazze, anagrafiche e non, lo sanno, si sono aggiornate, forse rassegnate, ma i ragazzi eterni no, ed essendo loro più impegnati a discorrere della maledizione del crociato che s'è abbattuta sull'AS Roma, sul tema sono indietro, ritengono ancora che in amore vinca chi fugge. Beati loro, poverini. Ora, non sia per regola o per comando, ma un modo per arricchire l'ininterrotta disamina del cruciale punto con le amiche (con gli amici evitare) è leggere e discutere il nuovo libro di Barbara Alberti, Mio signore (Marsilio). Portiamocelo all'aperitivo, mettiamolo a sedere tra noi, ha anche una copertina che su certe poltroncine di certi locali in centro starebbe un amore. Non lo direste mai, da una copertina tanto ragguardevole, che dentro c'è una riscrittura di La Madre Santa un libro di Leopold von Sacher-Masoch, quello per colpa del quale certe volte ci siamo sentite chiedere se per caso potevamo indossare un filo spinato, ma pure quello per merito del quale siamo state felici di farlo. E' un libro, questo di Alberti, che ci dice che stiamo sbagliando anche noi, soprattutto noi, e che dobbiamo smetterla di struggerci e domandarci come accidenti sia possibile che siamo finite in questi anni Cinquanta della ragione e nonostante il pop femminismo radicale e il body positive eccetera, l'amore si comporti come un premio letterario minore e finisca sempre nelle mani di scialbe, deludenti, disutili creature. Quando Andrea, l'orrendo buzzurro di cui è innamorata Maria, protagonista del libro, le chiede se ci sia qualcosa di buono in lui, lei gli risponde: “La vostra pochezza”. Ha appena finito, Maria, di elencargli tutti i suoi difetti, con grazia stupenda e devozione folle, e naturalmente lui non ha capito che per lei il fatto che lui sia così pieno di difetti lo rende amabile sopra ogni altra cosa e di più: fa di lui Dio. E' per questo che gli dà del voi: per lei, quell'ammasso di puzze, unto, pigrizia e mascolinità tossica è Dio. E infatti il libro comincia con Maria che prende in disparte Andrea e glielo dice – ehi tu sei Dio, per favore vieni stasera da me ché ti voglio venerare – e lui che accetta l'invito pensando a una stramba tattica per adescarlo e portarselo a letto. Invece Maria, che è una buona brutta ragazza che lavora come inserviente nel bar della Gradisca di paese, per molto tempo non fa che aspettare Andrea per cena, cucinare per lui, lavargli vestiti schiena piedi, sussurrargli parole dolci e mai maliziose, spiegargli quanto ammira la differenza tra lui e Gesù Cristo: “La vostra prima incarnazione era stata una passeggiata, in confronto: comodo, Cristo! Che gli è costato? Era venuto al mondo bello, longilineo, pieno di discepoli, gloria”. Andrea le tiene bordone e si gode l'adorazione di lei, senza darle in cambio altro che i suoi calli da limare.
Cosa sbagliamo quando ci convinciamo che in amore vinca chi non vale niente? Uno, l'idea che l'amore debba premiarci per il nostro valore. Due, la convinzione che la condizione preliminare e necessaria da cui partire per costruire (anzi, per co-costruire, come dicono gli psicoterapeuti) un amore sia la parità. Tre, l'ossessione per la lucidità. Si ama anche per caso, ci si innamora anche degli immeritevoli, delle noiose, delle gatte morte, e la reciprocità non fa sangue ma divano, quindi ogni tanto proviamo ad andare incontro a quelli che ci sembrano miserabili, non all'altezza ma solo alla bassezza, quelli che anche solo uscirci insieme ci sembra una perdita di dignità, quelli che secondo le nostre amiche ci tengono in scacco e in soggezione eccetera. “Amo le vittime in amore perché seguono la loro strada”, ha detto Alberti alla Stampa. Sappiamo seguire la nostra strada? Siamo capaci di ammettere che ci rende felici qualcosa che non ci rende onore al merito?
C'è una trapper simpatica che canta una canzone che si chiama “Mangiauomini” e nel cui video si impegna molto a sembrare cattiva e spietata. Maria è un personaggio contrario perché “Di cattivi felici non ne conosco, il male lo paghi” (sempre Alberti alla Stampa). I buoni non pensano alle conseguenze delle proprie azioni, all'utile, ed è per questo che sono liberi, e godono, e ridono, e falliscono senza drammi, e vanno incontro alla vita e non cascano nei burroni, ma ai lati della strada, dove non si è mai spacciati.
Simonetta Sciandivasci
Il Foglio sportivo - in corpore sano