C' è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui la dirigenza del New York Times produceva dettagliati report interni nei quali, con tono allarmato, osservava l'inarrestabile ascesa di compagnie digitali come BuzzFeed, Vox, First Look Media, Huffington Post e altri, che con modelli innovativi accumulavano fatturato e lettori a discapito dei blasonati e giurassici media tradizionali. In quei documenti si leggevano cose del tipo: “Sono davanti a noi nella costruzione di sistemi di supporto per giornalisti digitali”, oppure “il nostro vantaggio giornalistico si sta assottigliando” e ancora “il divario crescerà se non miglioriamo in fretta”. Il senso di urgenza di questi memo era dettato da condizioni congiunturali, ma esprimeva in fondo un sentimento da fine di un'epoca: un'invasione di aziende ispirate all'ethos della Silicon Valley e sostenute da editori visionari, rigorosamente impuri, stava mandando in pensione un mondo intero, ancora popolato di “redattori che non hanno dimestichezza con il web” e di responsabili che passano “troppo tempo a occuparsi della composizione della prima pagina”. Non rimaneva che sprangare le finestre, chiudere le falle e disporre strategicamente sacchi di sabbia per arginare l'ondata. Era stato proprio BuzzFeed a dare conto del documento commissionato da A. G. Sulzberger – figlio dell'allora editore del Times, di cui poi ha preso il posto – senza riuscire a nascondere un pizzico di maliziosa euforia per l'ennesima prova documentale del vecchio mondo che si rendeva conto d'essere spacciato. Forte del suo business model ad assetto variabile, dove i ricavi di listicles e i gattini sostenevano le spese di un'ampia redazione giornalistica, BuzzFeed era l'avamposto della rottamazione delle news tradizionali.
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