P er John Locke, dal fatto che tutti gli uomini appartengono a Dio, sono sua proprietà, consegue che nessuno può arrecare danno all'altro né a se stesso; consegue altresì una “proprietà di sé” da parte di ciascun uomo, che diventa il criterio in virtù del quale Locke giustifica l'appropriazione individuale di beni, che originariamente sono dati da Dio in comune a tutti gli uomini. Nel Secondo trattato sul governo egli scrive: “Benché la terra e tutte le creature inferiori siano date in comune a tutti gli uomini, ogni uomo ha la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all'infuori di lui”. Gli esseri umani sono inviolabili proprio in quanto auto-proprietari. E la proprietà privata è inviolabile proprio in quanto espressione del lavoro di un uomo che mescola ciò che è suo, il proprio corpo, la propria intelligenza, la propria passione, con la terra, sottraendola così all'inerzia che la renderebbe inutilizzabile. Carlo Marx evidentemente conosceva bene queste parole di Locke allorché definì il lavoro come una forma di “ricambio organico” tra uomo e natura. Ma non è di Marx che dobbiamo parlare.
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