L'intellettuale che sapeva leggere e spiegare anche il fumetto e Fantozzi
R icordare, in occasione della sua scomparsa, Vittorio Spinazzola, ripercorrere un'esperienza culturale variegata e complessa, mi riporta alla personalità modesta e tenace di un intellettuale che ha fortemente voluto evitare di rinchiudersi in un fortino di presunta superiorità etico-estetica e che ha anzi lavorato pazientemente per diroccare quel fortino. Il tratto più originale della sua opera sta proprio nella capacità di non isolare l'opera, letteraria, cinematografica, fumettistica, dal suo pubblico, in ultima analisi dal suo mercato. In un'intervista di non molti anni fa ha spiegato questo come l'approdo di un percorso di analisi: ha cominciato a distaccarsi dai dogmi della scuola di Francoforte che demonizzavano l'industria culturale, poi, quando l'antindustrialismo ha perso smalto, ha compreso che “quello che però è ancora rimasto un tabù è qualcosa di più dannoso ancora, in realtà, l'insofferenza contro il mercato. Finché dici che sei contro l'industria, pazienza … ma quello che c'è dietro è il rifiuto del mercato, cioè della contrattazione, cioè del rapporto di intrinsechezza tra il produttore e il fruitore”. Lo dice senza occultare di essere stato anche lui un nemico ideologico del mercato, ma di aver superato questa concezione riconoscendo il fallimento dei sistemi pianificatori. Però non ha certo dovuto aspettare l'89 per esaminare i meccanismi del mercato culturale: già negli anni Sessanta teneva una rubrica intitolata Mercato culturale.
Il suo lavoro è stato un po' genericamente etichettato come critica letteraria sociologica, il che trascura la sua penetrante attenzione all'analisi stilistica. Se è sociologico il suo approccio, lo è nel senso di una sociologia funzionale, cioè di un esame della funzione dell'attività letteraria nella società e della sua interazione inevitabile con la società. In questo modo ha dato concretezza analitica alle intuizioni di Antonio Gramsci, a cominciare da quella bistrattata di “nazional-popolare”.
Nel panorama dell'intellettualità di sinistra Spinazzola è sempre stato in una posizione un po' sghemba, non ha esasperato le differenze, ma ha tenacemente coltivato, negli scritti e nell'insegnamento, una metodica scevra dalle ideologizzazioni di moda, che ha coltivato con esiti rilevanti, senza ergersi a caposcuola. Anche per questo dai suoi corsi universitari è uscita una serie di personalità differenti, che però conservano una specie di marchio di fabbrica comunque distinguibile. Quello che è stato sempre il suo assillo è non trasformare il giudizio estetico, direi “crociano” sul valore di un'opera in una specie di confine invalicabile che distingue e isola i vertici artistici dal resto della produzione narrativa (e per lui anche il cinema, il fumetto ecc. fanno parte della narrativa). Anche sull'altro versante, quello dei fruitori, ha rifiutato le letture semplicistiche cercando di esaminarne e comprenderne i tratti specifici in ogni fase, senza le semplificazioni ideologiche che per esempio caratterizzano la lettura data da Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo.
Già nell'esame comparato della produzione cinematografica del dopoguerra ha confrontato i capolavori del neorealismo con il cinema di fruizione più diffusa, computando anno per anno gli esiti al botteghino, con un metodo che allora era del tutto innovativo. Questo metodo del confronto anche tra generi diversi messi sempre in relazione con la dimensione della fruizione (usava questo termine in opposizione a consumo, per mettere in luce la funzione comunque esercitata dall'opera narrativa) lo ha utilizzato anche nel saggio Alte tirature, in cui ha preso in esame i grandi successi narrativi di mezzo secolo, da Fantozzi a Gomorra, da Oriana Fallaci a Susanna Tamaro. Voleva dimostrare che “la letteratura non è fatta soltanto dei libri che piacciono ai letterati”, e ha suscitato un certo scandalo proprio tra loro: nella recensione su Repubblica si accusava Spinazzola di aver parlato “di questi autori qui come se stesse parlando della Gerusalemme liberata o delle Confessioni di un italiano”. Esattamente così, e proprio in questo sta il valore del metodo analitico di Spinazzola, che non confonde Fantozzi con Ariosto, ma sa leggerlo e trovare le ragioni culturali specifiche che ne hanno determinato il successo.
Molte delle tecniche analitiche e critiche inaugurate da Spinazzola ora sono diffuse e utilizzate persino dai media popolari, il che testimonia del segno profondo che ha lasciato nella cultura nazionale, o se si preferisce nazional-popolare.
Sergio Soave
Il Foglio sportivo - in corpore sano