Sinistra senza lavoro
Roma. La produzione industriale nell'ultimo trimestre del 2019 è scesa dell'1,4 per cento rispetto al trimestre precedente ed è crollata del 4,3 per cento in un anno. I dati, registrati dall'Istat, dovrebbero porre l'attenzione della maggioranza sui temi dell'economia: mancata crescita, produttività stagnante e bassa occupazione. Ma soprattutto dovrebbero spingere il partito che si definisce riformista a una riflessione sulla sua identità: davvero il Pd si ritiene il partito del lavoro? In realtà tutto, a parte tanta retorica diffusa in altrettanti convegni, pare indicare il contrario, cioè che il principale partito della sinistra italiana sia completamente disinteressato all'argomento. La dimostrazione più lampante è il recente accordo di maggioranza che ha portato all'elezione dei presidenti delle vacanti commissioni al Senato. La commissione Difesa è andata a Laura Garavini di Italia viva, al posto della leghista Donatella Tesei; la commissione Sanità del Senato a Stefano Collina del Pd, in sostituzione del grillino Pierpaolo Sileri divenuto viceministro della Salute; mentre il M5s con Susy Matrisciano ha conservato la commissione Lavoro che era del ministro del Lavoro Nunzia Catalfo. Il Pd avrebbe potuto esigere per quel ruolo Tommaso Nannicini, un economista esperto proprio di tematiche sul lavoro, e invece ha preferito lasciarlo all'alleato. Pertanto il partito guidato da Vito Crimi conserva il monopolio sulle cariche istituzionali riguardanti il lavoro: ministero del Lavoro (Nunzia Catalfo), Inps (Pasquale Tridico), Anpal (Mimmo Parisi) e, appunto, la conferma della commissione Lavoro. Al M5s manca solo il nuovo presidente dell'Inapp dove, al posto di Stefano Sacchi, è quasi fatta per Sebastiano Fadda, economista vicino a Tridico. Così il Pd perde anche la più inutile (o meno influente) istituzione che si occupa di lavoro. A completare il quadro va ricordato che il M5s ha anche il ministero dello Sviluppo economico, con Stefano Patuanelli, e la commissione Industria con Gianni Girotto.
All'assenza nei posti di comando corrisponde la vuotezza dei contenuti: a parte il mini-taglio del cuneo fiscale, il partito di Nicola Zingaretti non ha ancora un'agenda riconoscibile sui temi dell'occupazione. Non incide laddove le misure sono disastrose come Quota 100, ha rinunciato a correggere quelle disegnate male come il Reddito di cittadinanza, non riesce neppure a dire qualcosa sulla gestione completamente fallimentare delle politiche attive affidate all'“inventore” dei navigator del Mississippi. Al limite, come sul salario minimo, va a rimorchio del M5s con proposte volte a limitare i danni delle letali ipotesi grilline. Con l'economia ferma e la produzione industriale in calo, sul lavoto, e non solo, il governo giallorosso è politicamente e culturalmente egemonizzata del M5s. E così su sviluppo e occupazione – che dovrebbero essere il suo core business – il Pd non ha voce in capitolo. Anche perché non sa cosa dire.
E' questo il vero dramma del partito guidato da Nicola Zingaretti: proprio sul lavoro non ha una identità. Probabilmente il Pd non avrebbe avuto problemi, in una sorta di riequilibrio all'interno della maggioranza, a chiedere per sé la commissione Lavoro al posto della Difesa. Ma per metterci Nannicini? E' una delle persone più preparate del Parlamento, ma rappresenta la stagione delle riforme renziane, è insieme ad altri l'architetto del Jobs Act e della decontribuzione per i neoassunti. Politiche contro cui si è ferocemente opposto il M5s, ma che non sono apprezzate fino in fondo forse neppure da questo Pd. Gran parte della nuova dirigenza del partito si è espressa in maniera molto critica nei confronti delle riforme della stagione renziana, dal ministro per il Sud Giuseppe Provenzano al nuovo responsabile Economia del Pd Emanuele Felice fino a un economista molto ascoltato da una parte del partito come Fabrizio Barca.
Il problema è che il Pd non è neppure deciso per una svolta corbyniana, per una restaurazione della sinistra dura e pura dopo l'“occupazione” renziana. Non riesce né a rivendicare quelle riforme né a rinnegarle. Inoltre farsi portatore di una posizione chiara e decisa sul lavoro aprirebbe una competizione con il M5s, ma anche un confronto di fondo – finora sempre evitato – all'interno del partito. Insomma, se il Pd avesse una linea sul lavoro metterebbe in fibrillazione la maggioranza e in crisi d'identità se stesso. Per questo, meglio evitare. Meglio non esporsi e lasciar fare tutto al M5s. Cosa potrà mai andare storto?
Luciano Capone
Il Foglio sportivo - in corpore sano