Flavio Bucci, vita attoriale e trascendentale di un irregolare di talento
Roma. Flavio Bucci era un attore più credibile della verità. Non soltanto per la biografia estrema, le battute sopra le righe e certe liti memorabili per le quali ieri è stato molto ricordato dai media, nel giorno della sua scomparsa a 73 anni, rischiando di ridurlo a quella icona, o al contrario alla fama televisiva. Fabio Bucci aveva un volto e una vita irregolari che attraversavano ogni parete e ogni schermo, un talento contro il quale sembrava che la sua stessa esistenza si ribellasse. Una ribellione, una precipitazione continua negli abissi dei personaggi, che finivano per collimare la sua anima, il suo tormento. Nel 1971 aveva preso parte a “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri e solo due anni dopo era già protagonista di un altro film del regista e suo maestro: “La proprietà non è più un furto”. Già a quell'altezza non aveva bisogno di appiglio, artificio o trucco. Le sue interpretazioni fanno venire in mente termini del lessico teologico: trasfigurazione, incarnazione. Nel 1977 arriva “Ligabue”, lo sceneggiato televisivo diretto da Salvatore Nocita. Chi lo ha visto lo ricorda ancora e alcuni giovani lo vanno a cercare nei siti Rai per conoscerlo: basterebbe questo per capire la portata di quella discesa nella follia geniale e multiforme del pittore naïf. “Credo che con Ligabue Flavio abbia sfiorato la perfezione. Aveva un'immedesimazione quasi totale. Quando lo vedevo muoversi nelle riprese, parlare, sentivo quest'adesione: lo amava molto”, ricorda Pamela Villoresi, oggi direttrice del Teatro Biondo di Palermo e allora sul set con Bucci. “Non era facile, perché era un personaggio molto doloroso, isolato, mentre Flavio era un uomo socievole, allegro”, continua l'attrice che paragona Bucci a un'espressionista, capace di tinte e segni forti, “ma questo non vuol dire che non avesse misura”.
“Per me era un amico oltre che un collega di lavoro”, ci dice Marco Mattolini suo regista a teatro in tanti spettacoli. “Saremmo dovuti ripartire tra pochi giorni per la nostra tournée”. Bucci stava portando in scena uno spettacolo autobiografico dal titolo significativo: “E pensare che ero partito così bene”. Raccontava sia gli anni dei grandi successi, sia quelli più tristi, per lui era un modo di riprendere il suo rapporto con la scena. Bucci offriva al pubblico alcuni suoi cavalli di battaglia, si lasciava intervistare da Mattolini, spiegava le ragioni per cui era uscito dal giro per un periodo, sia a causa di una malattia, sia per “le conseguenze di certe cattive abitudini di cui era schiavo”. Sul passato, su certi periodi in cui non aveva amato molto se stesso e il suo talento, stendeva un laconico: “E' andata così”. In scena interpretava brani di “Diario di un pazzo” di Gogol, recitato per vent'anni di seguito, “Riccardo III” di Shakespeare, “Dialogo tra un passeggero e un venditore di almanacchi” di Leopardi, che lui adorava, e una scena da “Uno, Nessuno e Centomila” di Pirandello, spettacolo andato in tournée per tre anni: un trionfo. Mariangela D'Abbraccio, in scena con lui in quell'occasione, ricorda “un pubblico che lo amava moltissimo, perché era un attore differente. Mi torna in mente un'immagine di lui. Ero a Positano e mi ricordo che da lì lo vedevo attraversare il mare: con la sua barca e il suo senso di libertà”. Mattolini racconta il pubblico lo amava e lo amava ancora, anche fuori dal palco: “Dopo lo spettacolo andavamo al ristorante e lì faceva un altro spettacolo, con gli avventori. Anche chi non è appassionato di teatro lo ricorda per i suoi grandi sceneggiati: ‘Ligabue' ma anche ‘Don Luigi Sturzo'. Con il pubblico giovane ha avuto un ottimo rapporto, perché era divertente, vitale, e loro lo adoravano”. Una vita da farsa trascendentale. “E' andata così”.
Eugenio Murrali
Il Foglio sportivo - in corpore sano