I danni collaterali della guerra più umana di sempre
Limitare gli orrori bellici è nobile, ma se il progresso avesse alimentato i conflitti? Tesi contrarian di un giurista americano, sulle orme di Tolstoj
Pubblichiamo qui alcuni stralci di una relazione che Samuel Moyn, giurista e storico di Yale, ha tenuto la settimana scorsa all’università di Oxford, dal titolo “A New Face of War”. La provocatoria tesi presentata da Moyn è che la progressiva umanizzazione della guerra – attraverso leggi, convenzioni internazionali, tecnologia – abbia promosso, invece che limitato, il ricorso alla forza per dirimere le controversie internazionali. In termini giuridici, l’attenzione sullo jus in bellum ha prodotto il rilassamento dello jus ad bellum. E’ il “Pensiero dominante” della settimana.
Tanto nella sua realtà quanto nelle sue rappresentazioni, la guerra non si è mai allontanata dal modo fondamentale in cui l’uomo definisce la sua etica. La tradizione letteraria occidentale inizia con la sofferenza e la morte nel conflitto militare. Eppure la “guerra senza fine” dell’America, come molti l’hanno definita, si distingue per l’unicità storica dei controlli legali ed etici imposti nella condotta delle ostilità, anche se le condizioni per la sua continuazione nel tempo e nello spazio sono state progressivamente ignorate. Per quanto possa sembrare paradossale, una caratteristica sempre più significativa delle guerre in cui l’America è coinvolta nel mondo è la loro umanità senza precedenti. E’ un nuovo volto degli annali della guerra.
Talvolta questa nuova modalità “umana” di dominio viene oscurata, per buone ragioni, a causa della presenza di forme offensive di controllo, regolamentazione e violenza che sono molto più antiche. Il controterrorismo “umano” contemporaneo non è certo l’unica forma di guerra che gli Stati Uniti adottano. L’atavico fenomeno della guerra civile va avanti da anni nel mattatoio della Siria, e si discute sempre se gli Stati Uniti si siano coinvolti troppo o troppo poco. Con la sua nota storia coloniale, l’impegno diretto nella counterinsurgency (come nei casi di Afghanistan e Iraq) si è ritirato ed abbattuto, per poi tornare spesso a ritirarsi. E le guerre per procura rese famose dalla storia della Guerra fredda stanno tornando (è il caso oggi dello Yemen). Considerati gli eccessi di violenza di queste residuali forme di conflitto, potrebbe sembrare immorale o ottuso metterle da parte per considerare la nuova forma della guerra, l’invenzione di qualcosa che non ha precedenti, una guerra la cui novità principale è la sua umanità [...].
Poiché siamo ormai già molto avanti nella strada verso una guerra perfettamente pulita, mi domando se possiamo scorgerne la meta e domandarci se davvero la vogliamo raggiungere. Per quelli che sognano una guerra umana, le nuove forme di controllo sono un’utopia discesa sulla terra. Paragonata alla scioccante brutalità della guerra nel passato, la probità morale e la sicurezza fisica della guerra (non solo per i soldati americani) è incredibile. Chiunque sia preoccupato dalla violenza perpetrata da nazioni lontane ma molto più potenti della propria preferirebbe di gran lunga essere un cittadino dell’Afghanistan di oggi che un contadino vietnamita nel 1968, un pastore algerino nel 1958, un bracciante nelle Filippine nel 1948, senza considerare i molti secoli segnati dal colonialismo diretto e dalla counterinsurgency genocida.
Le vittime di oggi, a parte godere di migliori condizioni, beneficiano delle preoccupazioni umanitarie e dell’attivismo legale che accelerano il processo che rende la guerra il più umana possibile. Ma è abbastanza, per sollevare la nostra coscienza, che il nuovo tipo di guerra, sempre meno costretta da condizionamenti cronologici e geografici, sia anche la guerra più umana mai combattuta, e molto probabilmente continuerà a perfezionarsi?
La successione, per gli americani, di due candidati presidenziali la cui ascesa è collegata al disgusto per la guerra perpetua – Barack Obama e Donald Trump – suggerisce che non è abbastanza. Eppure gli stessi candidati, una volta diventati presidenti, hanno perfezionato una forma di guerra talmente consensuale, igienica e quotidiana che potrebbe non finire mai. In un certo senso, la guerra non è più l’inferno, almeno non per le grandi potenze; ma la stessa cosa vale anche per i loro nemici. Nonostante gli attivisti e i militari continuino a scontrarsi sui dettagli, come dovrebbero, c’è un sostanziale accordo sul fatto che la guerra dovrebbe essere condotta minimizzando i danni collaterali, e specialmente le vittime civili. Si tratta di un consenso che non è mai esistito prima d’ora nella storia, e che è stato messo in pratica negli ultimi trent’anni, con i militari generalmente d’accordo. Gli attivisti umanitari litigano con i militari non sulla decisione di muovere guerra, ma sulle condizioni in cui il conflitto si svolge. Detto altrimenti, i difensori dell’uso della forza e i promotori dell’umanitarismo hanno accettato di sfidarsi sullo sfondo dell’impegno comune e condiviso di raggiungere qualcosa di nuovo nella storia: la guerra umana, che è contemporaneamente un impianto stabile e una questione globale [...].
È stato Lev Tolstoj a fornire la critica all’umanizzazione del conflitto più pregnante per questa riflessione, proprio perché l’ha applicata direttamente alla guerra nel mettere sotto accusa l’umanizzazione come alternativa all’abolizione e come parte di una critica più ampia a pratiche delle quali avrebbe preferito vedere la fine
L’impianto critico di Tolstoj si è solidificato dopo la sua famosa “conversione” di mezz’età a profeta e saggio, ma ha messo la sua versione più tagliente in bocca al principe Andrej in Guerra e pace: “Quel che farei se avessi il potere”, dice, “è non fare prigionieri […] questo semplice cambiamento trasformerebbe l’intero aspetto della guerra, rendendola meno crudele […]. Se non ci fosse questo gioco a promuovere la generosità sul campo di battaglia, non faremmo più la guerra, eccetto per qualcosa che merita davvero di affrontare una morte certa [...]. Ma giocare a fare la guerra è davvero vile, e trastullarsi con la magnanimità e tutto il resto [...]. Parlano di della legge della guerra [...] dell’umanità verso i feriti. E’ tutta spazzatura”.
Già in questa prima versione, Tolstoj individua una possibile relazione fra umanizzazione e coinvolgimento: la moralizzazione di una pratica il cui “oggetto è l’omicidio” come contraddizione morale in termini. Attraverso il principe Andrej, attaccava il principio stesso del progetto umanitario moderno di governare la guerra, riferendosi senza dubbio alla prima Convenzione di Ginevra del 1864, concepita per proteggere i soldati feriti. Nel picco del suo pacifismo, all’alba del Ventesimo secolo, Tolstoj ha criticato anche le conferenze dell’Aia, organizzate dal suo Zar, che hanno portato ulteriori riforme di umanizzazione mediante la legge. Per Tolstoj, erano poco più che sciocche collusioni di attivisti umanitari con stati impegnati nella gestione etica delle loro azioni più vili.
Non per tutti ma per alcuni nel Diciannovesimo secolo, questa umanizzazione equivaleva all’abolizione della guerra con altri mezzi e secondo una tempistica plausibile, ma Tolstoj insisteva sul rischio che l’umanizzazione rendesse la viltà indefinita e perpetua, invece di fissare un termine temporale, una preoccupazione che il presente conflitto ci costringe a riconsiderare. “La Convenzione di Ginevra ha fornito un argomento in favore della fratellanza umana”, ha spiegato Gustave Moynier, che per decenni ha guidato la commissione internazionale della Croce Rossa, custode delle legi internazionali di guerra fino a oggi. “Riconoscendo che in fondo appartenevano tutti alla stessa famiglia, gli uomini hanno stabilito che si dovesse iniziare a mostrare qualche riguardo per la sofferenza dell’altro, almeno fino a un certo punto [...]. Aspettando il momento in cui una convinzione ancora più forte sulla loro comune umanità li porterà a capire che l’idea stessa di uccidersi a vicenda è mostruosa [...], l’umanizzazione della guerra potrà concludersi soltanto con la sua abolizione”.
Questo non è ancora accaduto. E per Tolstoj questa aspettativa non teneva conto della possibilità opposta, cioè che l’umanizzazione possa alimentare, e non fermare, l’orrore morale. Rendere la guerra più umana potrebbe renderla più duratura.
Dopo l’abbandono della letteratura e la svolta religiosa, Tolstoj ha concluso che non esiste mai una giustificazione per l’omicidio, e ha sviluppato una filosofia della non-violenza che ha avuto un impatto titanico sulla storia globale, non da ultimo per l’uso che ne ha fatto il suo più grande discepolo, Mohandas Gandhi. Al contrario del suo personaggio di Guerra e pace , il Tolstoj maturo non diceva più – come invece facevano molti ancora nel Diciannovesimo secolo – che la conquista di una minore crudeltà in guerra nel lungo periodo offriva un buon argomento per permettere guerre più crudeli nel breve termine. In parte, questo era dovuto al fatto che Tolstoj rifiutava il ragionamento consequenzialista, e aborriva i calcoli utilitaristici, anche se qualcuno di questi poteva funzionare (un’analisi costi-benefici può giustificare Hiroshima? La domanda è offensiva).
Per il tardo Tolstoj, se c’era una qualche ragione per abolire invece che umanizzare la guerra, non era perché avrebbe limitato dolore e sofferenze; anche se lo avesse fatto, come risultato empirico, quello che davvero importava per lui era il tipo di relazione fra i sedicenti cristiani e il mondo di sofferenza descritto da Gesù nel discorso della montagna. Ma ciò che mi interessa nella posizione del Tolstoj maturo – ciò che è rilevante per la nostra guerra come per nessun’altra nella storia – non è la sua metafisica o la pietà ma la critica all’umanizzazione come perpetuazione che già Guerra e pace faceva presentire, e che poi ha raffinato più avanti. Nella sua fase di attivista cristiano e anarchico, Tolstoj ha offerto una più piena critica dell’umanizzazione della guerra e l’ha posta nel contesto delle abolizioni comparative e della umanizzazioni comparative delle pratiche violente in generale [...].
E se avessimo scoperto che, qualunque cosa credessimo fosse la guerra, non solo la brutalità ma l’uccisione è meno decisiva nelle pratiche sociali di quanto si è creduto per millenni? Questo renderebbe la guerra paragonabile alle scoperte su schiavitù e punizione, dove lo scopo della pratica in sé non era la violenza fisica ma poteva essere raggiunto in modo più efficace attraverso l’umanizzazione del controllo senza le macchie morali del sangue e della brutalità. Eppure con la guerra, l’esperimento contemporaneo di determinare se esista una versione della pratica al di là della caratteristica dominante è un affare molto più complicato. Nei casi della schiavitù e della punizione, era più un fatto di spingere la brutalità e la morte fuori da una pratica che aveva da sempre assunto molte forme. Se alcuni padroni erano gentili e alcune prigioni ben gestite, l’obiettivo sarebbe stato quello di universalizzare preferenze etiche già ampiamente affermate. Non è così per la guerra, che non si pensava potesse essere trasformata in qualcosa di diverso dall’atto di uccidere.
Consideriamo dunque questa possibilità. Non soltanto i civili sono più protetti nei confronti bellici con meno impatto, ma anche i combattenti stessi godono di una legale e reale protezione senza precedenti. Alcuni attivisti umanitari più radicali vogliono spingere questa trasformazione fino a convertire interamente la guerra in una forma di polizia globale.
I due migliori esempi di questo impulso riguardano l’obbligo di catturare, invece che uccidere, obiettivi militari, quando è possibile, e se questi obiettivi godono del diritto umano di ricevere una richiesta di resa invece che essere uccisi a vista. A oggi, lo status di combattente ti dà il diritto di uccidere impunemente, ma dà anche al tuo avversario il diritto di ucciderti impunemente. Una nuova interpretazione della norma in vigore, tuttavia, dice che gli stati sono già obbligati a catturare i nemici invece che ucciderli, quando è possibile. A un nuovo movimento, molto più ampio, propone la cosiddetta “co-applicazione” delle leggi di guerra e di un corpo separato di di leggi sui diritti umani internazionali. Questo sviluppo proteggerebbe i diritti umani – incluso il diritto alla vita – non solo per i civili ma anche per i soldati. In particolare, darebbe adito a una norma di polizia nell’ambito della guerra che contempla l’uccisione in circostanze più limitate di quelle in cui è concessa oggi, in virtù di un obbligo di chiedere anche agli obiettivi militari se preferiscono arrendersi, deponendo le armi in cambio della vita.
Una significativa corrente di pensiero, insomma, esplora l’idea che anche i soldati sono persone, sottomettendo le guerre internazionali alle norme di polizia che sono familiari nell’ambito della politica domestica. Nella misura in cui questi sviluppi prendono piede, le vite dei soldati stessi, assieme a quelle dei civili, non verranno più considerate sacrificabili. Se potremo ancora chiamare “guerra” questa pratica non è interessante quanto il fatto che sostituirebbe non soltanto la violenza eccessiva ma anche l’idea della uccisione dei nemici come modalità classica per ottenere scopi politici. Quello che pensavamo fosse il cuore della guerra, potrebbe diventare superfluo.
Samuel Moyn è professore di Giurisprudenza e storia all’Università di Yale. Dopo il dottorato all’Università di Berkeley in Storia dell’Europa moderna e la Scuola di legge a Harvard è stato professore alla Columbia e poi a Harvard. Si è occupato di diritti umani, storia del pensiero giuridico e teorie politiche, con particolare attenzione per le diseguaglianze economiche. Fra i suoi libri si ricordano “Not Enough: Human Rights in an Unequal World” (2018), “Christian Human Rights” (2015) e “The Last Utopia: Human Rights in History” (2010). Il testo pubblicato in questa pagina è un piccolo assaggio del materiale che confluirà in un libro di futura pubblicazione sul tema della “guerra umana”. Polemista tagliente da posizioni di sinistra-sinistra, tendenza Bernie Sanders, Moyn offre regolarmente contributi irritanti ed eruditi al dibattito politico su alcune delle principali riviste americane.