Soros e Koch finanziano il disimpegno americano
I nemici-amici lanciano un think tank per scardinare il modello del "secolo americano". Lo strano sodalizio tra fautori del restraint di destra e sinistra
Da mesi si parla di una iniziativa sostenuta da George Soros, il finanziere che domina le fantasie complottiste dei sovranisti di mezzo mondo, e Charles Koch, il magnate conservatore rimasto solo alla guida dell’impero di famiglia dopo la scomparsa del fratello David. Sono gli interpreti di due rette politiche normalmente parallele che convergono però sulla necessità di riformulare il paradigma della politica estera americana, nel segno della moderazione, del disimpegno, del rafforzamento della diplomazia a discapito dell’uso della forza. Qualche settimana fa il progetto è partito: si tratta di un think tank che coltiva l’ambizioso progetto di cambiare i termini del dibattito sul ruolo dell’America nel mondo e sulle modalità dell’esercizio della sua egemonia. Non si tratta di una recrudescenza dell’antico filone isolazionista o di un inno all’America First di Donald Trump – praticamente tutti gli attori coinvolti nel progetto sono dei critici del presidente – quanto di un tentativo di mettere in discussione alcuni dei pilastri che hanno sostenuto il consenso bipartisan della comunità di Washington che si occupa di politica estera. L’interesse del Pensiero dominante per l’operazione non si misura sulla sua eventuale efficacia nell’orientare le decisioni politiche, quanto nella sua pretesa di intercettare una sensibilità emergente fra analisti conservatori e progressisti. Una sensibilità che confusamente invoca una riforma dell’impianto di pensiero che ha informato la postura della superpotenza americana almeno dalla fine della Guerra fredda. Il pensatoio di Soros e Koch, dedicato a John Quincy Adams, ambisce a “cambiare il modo in cui la gente pensa”, ha detto il presidente Andrew Bacevich: programma forse troppo vasto per un manipolo di profeti della cautela, ma meritevole di attenzione.
All’inizio di dicembre è nato a Washington un nuovo think tank che si occupa di politica estera, il Quincy Institute for Responsible Statecraft. La nascita di un nuovo pensatoio nella capitale americana, luogo naturale dei centri studi che informano e orientano la politica, non è di per sé una notizia. L’elemento di novità è che il Quincy Institute è un’istituzione a rappresentanza trasversale che si propone di cambiare il paradigma di riferimento della politica estera americana. Il piano non consiste già nel rafforzare e dare voce a una delle parti che discutono su quale dovrebbe essere il ruolo e la postura dell’America negli affari globali, ma ambisce a ripensare la cornice concettuale entro cui il dibattito si articola, superando quello che a dire dei fautori dell’istituto è un consenso di fondo che ha dominato negli ultimi decenni l’establishment politico, diplomatico, militare e accademico che si occupa di politica estera. Repubblicani e democratici hanno proposto variazioni sul tema comune dell’egemonia globale americana, il “secolo americano” descritto per la prima volta da Henry Luce, insistendo ora sul tratto esplicitamente militaristico, ora sull’esportazione della democrazia liberale con strumenti diplomatici, ora sul mantenimento dell’ordine globale con mezzi militari ad alto contenuto tecnologico e minore impatto, ora su mercato e libero commercio come forze trainanti dell’espansione dei valori americani.
La premessa su cui nasce l’istituto è che queste non sono che interpretazioni leggermente divergenti di una concezione sulla quale vige un sostanziale consenso, espresso a vario titolo dall’amministrazione Reagan che ha combattuto “l’impero del male”, dal George H.W. Bush del “nuovo ordine mondiale”, dall’internazionalismo liberal di Clinton, dalla guerra al terrore di George W. Bush e dalla guerra dei droni di Obama. L’istituto nasce per mettere in discussione la premessa bipartisan e per generare “idee che spostino la politica estera americana lontano dalla endless war e verso una vigorosa diplomazia che persegua la pace internazionale”, come recita il documento fondativo del nuovo centro studi. Gli istituti di impronta isolazionista non sono mai mancati a Washington, che prima della Seconda guerra mondiale aveva una solida tradizione del genere “America First” maldestramente rilanciato da Donald Trump, ma sono stati per lo più sparute espressioni di correnti minoritarie: il Cato institute sostiene il disimpegno americano da posizioni libertarie, mentre il Center for the National Interest, fondato da Richard Nixon nel 1994, è un piccolo collettore di esponenti della dottrina realista che diffonde le sue idee attraverso la rivista The National Interest. Il Quincy Institute si propone di far emergere la questione del disimpegno americano dalla nicchia per rimetterlo al centro della scena pubblica, e per farlo ha fatto convergere i fondi di George Soros e quelli di Charles Koch, sommi finanziatori di cause progressiste e conservatrici che si ritrovano a uniti a proposito necessità di cambiare radicalmente l’atteggiamento tenuto dalla superpotenza mondiale nella gestione degli affari globali. Da mesi si parla del matrimonio eterodosso che unisce il finanziere simbolo del progressismo internazionalista, ossessione di ogni teorico del complotto che (non) si rispetti, e la famiglia americana che più di ogni altra ha contribuito a sostenere la causa del partito repubblicano, con l’eccezione notevole di Trump, inviso a David Koch, il più politicamente attivo dei fratelli di Wichita, scomparso qualche mese fa.
Pubblichiamo qui alcuni stralci del discorso tenuto dall’allora segretario di stato John Quincy Adams al Congresso il 4 luglio 1821. Per generazioni le sue parole hanno ispirato i sostenitori di un sostanziale disimpegno degli Stati Uniti dal coinvolgimento diretto negli affari degli altri paesi. Sotto gli auspici del diplomatico, poi diventato presidente, è da poco nato il Quincy Institute for Responsible Statecraft.
E ora, amici e concittadini americani, che cosa direbbero i saggi e istruiti filosofi del vecchio mondo, i primi osservatori di nutazione e aberrazione, coloro che hanno scoperto l’etere e i pianeti invisibili, gli inventori del razzo Congreve e dei proiettili a frammentazione, se si trovassero a domandarsi che cosa ha fatto l’America per il bene dell’umanità? La nostra risposta è questa: l’America, con la stessa voce che l’ha introdotta all’esistenza come nazione, ha proclamato all’umanità i diritti inestinguibili della natura umana, e i soli fondamenti legittimi del governo. Dalla sua ammissione nell’assemblea delle nazioni, l’America ha invariabilmente, benché talvolta senza costrutto, teso la mano dell’onesta amicizia, dell’equa libertà, della generosa reciprocità. Ha sempre parlato il linguaggio della libertà, della giustizia, degli uguali diritti, benché spesso lo abbia fatto a orecchi disattenti o sprezzanti. Nel corso di mezzo secolo ha rispettato l’indipendenza delle altre nazioni, senza alcuna eccezione, mentre ha mantenuto intatta la propria. Si è astenuta dall’interferire nei problemi di altri, anche quando sono scoppiati conflitti riguardo ai principi che le sono cari quanto al cuore è cara l’ultima goccia di sangue. Ha preso atto che i conflitti di quell’Aceldama che è il mondo europeo saranno per secoli a venire conflitti di potere inveterato e nascenti diritti. Il suo cuore, le sue benedizioni e le sue preghiere saranno sempre là dove sarà dispiegato il vessillo della libertà e dell’indipendenza.
Ma non va in giro per il mondo a cercare mostri da uccidere. L’America è la nazione che augura a tutte le altre libertà e indipendenza. Ma è il campione e il garante soltanto della propria indipendenza. L’America sosterrà la nobile causa con il tono della voce e l’edificante conforto del suo esempio. Sa bene che arruolandosi sotto bandiere che non sono le sue, anche se fossero bandiere dell’indipendenza di nazioni straniere, si coinvolgerebbe al di là del suo potere di divincolarsi in tutte le guerre di interessi, negli intrighi, nell’avarizia, nell’invidia e nell’ambizione che assumono le sembianze della libertà, usurpandola. La massima fondamentale della sua politica muterebbe così dalla libertà alla forza. Potrebbe diventare la dittatrice del mondo, cessando così di essere la custode del proprio spirito. La gloria dell’America non è nel dominio, ma nella libertà. La sua marcia è la marcia della mente. Ha una lancia e uno scudo, ma il motto impresso sullo scudo è: libertà, indipendenza, pace. Questa è stata la sua Dichiarazione. E questa è stata, fintanto che le necessarie relazioni con il resto dell’umanità lo hanno permesso, la sua pratica.
John Quincy Adams
Il progetto sostenuto in coabitazione dalle fondazioni di personaggi che dovrebbero rappresentare sensibilità, elettorati e mondi radicalmente contrapposti, non può che suscitare curiosità. Ai più attenti non è sfuggito che Soros e Koch collaborano già su progetti per l’assistenza ai veterani e il contrasto all’incarcerazione di massa, ma il Quincy Institute è la più rilevante delle operazioni congiunte proprio perché si propone di rovesciare una serie di assunti ampiamente accettati nella comunità di politica estera di Washington. E forse è più corretto dire che il centro studi intercetta e tenta di organizzare in coro una serie di voci fin qui indipendenti e minoritarie, scommettendo sul fatto che la sensibilità che esprimono sia più estesa e diffusa di quanto si creda. Questa sensibilità emergente, in contrasto con il paradigma che ha segnato una stagione, è il pensiero dominante di questa settimana. Il tempo dirà se è soltanto una nuova bolla che si aggiunge a quell’universo di monadi incomunicabili che è Washington oppure è il segnale di una linea di pensiero che si fa largo fra le trincee del dibattito politico, ma intanto il Quincy Institute attira certi ambienti conservatori, quello dei nazionalisti paleocon in stile Pat Buchanan e dei libertari isolazionisti, e stimola la sinistra radicale che è in tensione con il vecchio modello internazionalista, giudicato un infingimento per nascondere un dominio imperialista. E’ un ponte istituzionale tra due mondi lontani che talvolta si lanciano segnali ammiccanti. In mezzo c’è la colossale confusione della politica estera trumpiana, che un tempo ha promesso un riorientamento dei rapporti internazionali nel segno del realismo – faccenda potenzialmente interessante per i quincyani di destra e sinistra – ma nei fatti ha prodotto una congerie scomposta di azioni e inazioni dettate dalle passioni umorali dell’incontenibile ego social del presidente, non da individuabili principi di politica estera. Il nume tutelare dell’iniziativa è John Quincy Adams, che prima di essere eletto presidente nel 1825 è stato segretario di stato con un ruolo di peso nel formulare la Dottrina Monroe. I teorici del ritiro e della moderazione americana amano citare un passo di un suo discorso al Congresso nella festa per l’indipendenza del 1821 (e di cui pubblichiamo uno stralcio in questa pagina): l’America “non va in giro per il mondo a cercare mostri da distruggere”. Secondo Andrew Bacevich, storico militare che è stato scelto come presidente dell’istituto, quel motto è ancora valido, anche se il mondo è cambiato. Nella presentazione del think tank, Bacevich, che ha perso un figlio in Iraq nel 2007, ha spiegato che il pensatoio non porta avanti il verbo isolazionista (“Crediamo che gli Stati Uniti debbano essere impegnati a livello globale con iniziative che promuovono la pace, non la violenza e l’instabilità”) e non è un covo di anti-militaristi (“siamo a favore di un apparato militare organizzato per proteggere gli interessi vitali del paese). Al centro del programma dell’istituto c’è il restraint, termine che unisce moderazione, prudenza e contenimento. E’ questa ponderata cautela che unisce intellettuali diversi come Max Abrahams e Joshua Landis, Steve Walt e Gary Sick, Samuel Moyn e Barnett Rubin, federati sotto le insegne di Soros e Koch.