La storica Gertrude Himmelfarb, scomparsa di recente, ha affisso l'interpretazione del presente a una sola idea: l'oblio delle virtù borghesi
Gertrude Himmelfarb, la storica americana morta a 97 anni il 30 dicembre scorso, era quello che il filosofo Isaiah Berlin definiva un riccio: un tipo di intellettuale che, pur occupandosi di diversi aspetti della realtà, riporta ogni osservazione a un solo nucleo originario, una singola idea fondativa, un centro di gravità stabile attorno al quale tutto il resto ruota. Il pensiero dominante di Himmelfarb era la moralità. Lungo la linea che separa il bene e il male, il criterio di distinzione tra virtù e vizio, andava ricercato il carattere fondamentale che determinava le vite degli individui e il loro concorrere a formare società più o meno eque, prospere, fiorenti. Per lei la storia era un morality play, secondo l’espressione popolarizzata dai critici, una dialettica fra concezioni del bene: questa era la radice del dipanarsi dei rapporti fra le persone, fra i popoli e le nazioni. In ragione di questa visione ha criticato con uguale ferocia intellettuale la storiografia marxista, quella analitica, quella sociale, quella quantitativa e quella post strutturalista: queste correnti fra loro molto diverse erano unite nel comune progetto di “demoralizzazione” della storia.
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