Nel libro "Special Providence", pubblicato nel 2001, il politologo Walter Russel Mead ha individuato i quattro impulsi che guidano la politica estera americana (foto Reuters)

Le quattro scuole della politica estera americana

Il posto di Donald Trump nello schema fondato sul conflitto fra Jackson, Jefferson, Hamilton e Wilson. Ripasso per capire il mondo post Suleimani

L’uccisione di Qassem Suleimani e le sue conseguenze immediate, fra cui la rappresaglia fallita contro le basi americane in Iraq e il tragico abbattimento di un aereo civile nel contesto della maldestra reazione del regime di Teheran, hanno riaperto un antico dibattito intorno ai princìpi strategici che guidano l’azione degli Stati Uniti nel mondo. A quale visione fa riferimento l’operazione di Baghdad che ha eliminato l’architetto militare degli ayatollah? Quale dottrina di politica estera soggiace dietro alla manovra ordinata da Donald Trump? Nel conflitto delle interpretazioni, abbonda la confusione. Voci ultratrumpiane si sono levate contro il presidente, reo di aver dato la stura a un coinvolgimento americano di marca internazionalista nelle vicende del medio oriente – e non solo – dopo aver predicato un ripiegamento domestico sotto le insegne dell’America First. Per le stesse ragioni, alcuni nevertrumper hanno elogiato a denti stretti la decisione giusta presa da un presidente sbagliato. I realisti si sono rabbuiati per l’esibita mancanza di un’idea strategica coerente e per l’assenza di un piano concreto di gestione delle conseguenze di medio e lungo periodo. Altri ancora hanno agitato il rischio della escalation, occorrenza da intendersi non appena nella sua dimensione convenzionale ma anche secondo le direttrici cibernetiche che regolano i conflitti nelle vastità digitali. Molti liberal si sono trovati nell’imbarazzante posizione di dover criticare l’eliminazione di un macellaio votato alla lotta contro il “grande satana” americano, talvolta ricordando il ruolo di Suleimani nella lotta allo Stato islamico, secondo il copione della propaganda della Repubblica islamica. In un commento pubblicato sul New York Times, il giornalista e storico James Mann ha scritto che “Trump non è Dick Cheney”, ovvietà storica tesa a dimostrare che l’orizzonte in cui il presidente si muove è programmaticamente privo di idee e visioni: “Le azioni recenti del presidente sottolineano il fatto che il Partito repubblicano non ha princìpi che lo guidano; ha soltanto Trump, che impone fedeltà a sé stesso”. Il tratto egomaniacale e paranoico del presidente è, secondo questa interpretazione, l’unico elemento stabile in uno scenario altrimenti incoerente e impermeabile al principio di non contraddizione. 

 

 

L’infaticabile redazione del Pensiero dominante è tuttavia persuasa che le idee si manifestino anche nelle circostanze in cui gli individui che le veicolano non ne hanno contezza. Contrariamente a quanto sostiene la vulgata, le idee sono gli oggetti più concreti che esistano: invece di disperdersi in astrazioni senza conseguenze, tendono sempre a incarnarsi, dando forma agli eventi che determinano la storia. Era anche la convinzione di Alexis de Tocqueville – una delle ispirazioni costanti di questo spazio settimanale – secondo il quale il popolo americano è contemporaneamente quello che esprime al massimo grado la filosofia di Cartesio e quello che ha letto meno le sue opere. Seguendo l’ipotesi dell’influenza preterintenzionale delle concezioni del mondo, è dunque possibile che il leader meno intellettualmente versato che si possa immaginare abbia seguito dei princìpi ispiratori che non ha mai nemmeno considerato in forma teorica per ordire una delle operazioni fondamentali della sua presidenza. 

 


Lo spirito dell’operazione che ha ucciso il generale è stato definito “jacksoniano”, secondo lo schema elaborato da Walter Russell Mead


 

E’ stato detto che Trump è il portatore di una concezione “jacksoniana” della politica estera, allusione alla figura di Andrew Jackson (presidente dal 1829 al 1837) il cui ritratto campeggia non a caso nello Studio ovale. Che cosa significa? Per capirlo occorre riprendere lo schema tracciato dal politologo americano Walter Russell Mead nel libro Special Providence: American Foreign Policy and How It Changed the World, pubblicato nel 2001. Mead divide la politica estera americana in quattro atteggiamenti fondamentali, legati ad altrettante figure di presidenti o Padri fondatori che hanno contribuito in modo decisivo a elaborarli e metterli in pratica. Oltre alla citata concezione jacksoniana, ci sono l’impostazione hamiltoniana, jeffersoniana e wilsoniana. Lo schema è stato oggetto di infinite critiche. Gli storici più inclini all’approccio analitico osservano che il modello quadripartito non tiene adeguatamente in conto le circostanze irripetibili in cui ciascuna concezione si è sviluppata; gli scienziati politici notano che non offre un modello teorico solido; gli osservatori al di fuori dell’accademia sollevano il problema delle distinzioni troppo nette per inquadrare scuole di pensiero che si mischiano e si sovrappongono costantemente. Per evitare un errore metodologico fatale, occorre però considerare ciò che questo schema non pretende di essere: non è una classificazione esatta ed esaustiva di atteggiamenti perfettamente riconoscibili, dunque segnati da linee di demarcazione chiare. Non è un piano cartesiano dove ogni leader può essere collocato con certezza all’interno dei quattro quadranti a seconda delle sue inclinazioni. Mead ha parlato di categorie “evocative”, suggestioni volte a distinguere un’impronta, un orientamento predominante, un’adesione di massima a impostazioni di pensiero che nemmeno gli autori che danno a queste i nomi hanno inteso tradurre in prescrizioni esatte. Le scuole di pensiero descrivono un clima, un ethos, non impartiscono comandamenti né dogmi. Ci si muove dunque nell’ambito di una strutturale indeterminatezza, non nel regno delle idee chiare e distinte, alla ricerca delle propensioni attraverso cui l’America interpreta sé stessa e proietta la sua influenza su scala globale. Se si accetta questa premessa, la tipologia quadripartita di Mead è una bussola utile per orientarsi anche nel mondo post Suleimani, superando la linea di frattura fra conservatori e progressisti, che dell’attuale viluppo geopolitico spiega poco o nulla. Un ripasso delle tipologie in questione è dunque opportuno. 

 

 

La scuola jacksoniana, alla quale Trump è stato associato, postula la sicurezza e il benessere della popolazione americana come priorità assolute del governo. Si tratta di un istinto nazionalista naturalmente diffidente verso il coinvolgimento nelle controversie internazionali e privo di una visione civilizzatrice, ma è altresì animato da un certo culto della forza militare a scopo deterrente e difensivo. I jacksoniani non sono proni alle azioni belliche, ma quando scoppia un conflitto che minaccia gli interessi americani sono pronti a reagire con tutta l’energia necessaria a conseguire una vittoria schiacciante. L’affermazione della propria potenza non è tuttavia il preludio di un coinvolgimento di lungo periodo in un certo scenario, ma si prefissa il limitato proposito di punire chi offende ristabilendo un equilibrio favorevole agli Stati Uniti. Diversi critici hanno letto in questo modo l’uccisione di Suleimani, attore ostile che dopo una lunga serie di azioni contro le forze americane e i suoi alleati ha creduto di poter muoversi e dare ordini impunemente in un’area controllata direttamente dagli americani. Il generale ha superato la soglia oltre la quale l’impulso jacksoniano si trasforma in una risoluta – e circoscritta – iniziativa militare. 

 


Idealismo wilsoniano e internazionalismo hamiltoniano sono diffusi nell’élite, ma l’elettorato ha istinti più prudenti


 

L’impulso jeffersoniano, diffuso in questo momento soprattutto nei quartieri più radicali della sinistra, è riassunto nello slogan “come home, America” sventolato da George McGovern nella campagna del 1972 e diventato poi il mantra di isolazionisti e pacifisti. Al centro della dottrina jeffersoniana c’è l’idea che gli Stati Uniti non siano una nazione come le altre, quanto l’esito di un esperimento di natura diversa, inassimilabile ai paradigmi precedenti. Imbrogliarsi in una politica estera di stampo imperiale o inutilmente aggressiva è, per i jeffersoniani, un modo certo per indebolire la democrazia americana, che si compie invece in una equilibrata distanza dalle altre potenze. I jeffersoniani più convinti guardano con ostilità anche le organizzazioni internazionali e i trattati che legano l’America al resto del mondo. Un esempio di organizzazione jeffersoniana è l’Aclu, l’associazione per la difesa dei diritti civili che si concentra sulla promozione della giustizia sociale in ambito domestico ed esorta al ritiro americano dagli scenari di guerra.

 

Il primato economico degli Stati Uniti rispetto alle altre potenze è il pilastro della concezione hamiltoniana. L’alleanza fra lo stato e i grandi conglomerati produttivi è la chiave per sostenere la prosperità dentro ai confini, dalla qual cosa discende l’opportunità di promuovere istituzioni internazionali che possano garantire la posizione dominante dell’America nel mondo. La logica hamiltoniana non mette l’accento sull’eccezionalismo: gli Stati Uniti sono considerati la prima potenza fra le potenze, perciò contribuire a un clima di stabilità internazionale è un obiettivo desiderabile nella misura in cui ciò le consente di consolidare gli interessi economici americani. Istituzioni come il Wto e il Fmi e trattati come il Nafta nascono sotto auspici hamiltoniani. Animati da convinzioni realiste, gli hamiltoniani diffidano degli interventi militari motivati da ragioni ideali o umanitarie che possono ledere gli interessi americani, che vanno intesi innanzitutto nella loro dimensione economica.

 

La quarta “scuola” delle relazioni internazionali americane è quella wilsoniana, secondo la quale gli interessi dell’America si realizzano nel modo migliore estendendo il più possibile i valori democratici e liberali che il paese incarna. Idealisti e accesi sostenitori delle organizzazioni internazionali, su tutte l’Onu, i wilsoniani promuovono il massimo coinvolgimento diplomatico degli Stati Uniti con la comunità internazionale e sostengono la diffusione dei valori democratici a livello globale con piglio civilizzatore. L’internazionalismo liberale, anche nella sua versione interventista, emerge all’interno dell’ecosistema wilsoniano. Questa persuasione idealista si è sviluppata nella seconda metà del XIX secolo, ma si è affermata come dottrina coerente con la presidenza di Woodrow Wilson e ha contribuito alla formazione dei leader più diversi, da William McKinley a Jimmy Carter fino a George W. Bush.

 

Come si è detto, i confini fra questi impulsi sono labili, ed è fisiologico che una presidenza contenga in sé elementi che afferiscono a scuole diverse. Un esempio: Barack Obama ha mostrato tendenze hamiltoniane quando ha negoziato l’accordo nucleare con l’Iran e ha dato l’assenso ai consiglieri più wilsoniani quando si è accodato all’iniziativa di Francia e Gran Bretagna per rovesciare Gheddafi in Libia. E Trump? L’uccisione di Suleimani, picco dell’assertività presidenziale, sembra rispondere a una logica jacksoniana, anche se la nozione stessa di logica sembra incongrua quando a posteriori si cerca di trovare un senso nel confuso operare trumpiano. Di certo lo schema di Mead, se correttamente letto come una suggestione, offre una lente interpretativa utile per fare ordine in quello che in superficie appare come un grande guazzabuglio strategico. E c’è infine una non trascurabile dimensione elettorale: quando ha scritto il libro, a ridosso dell’attacco alle Torri gemelle, il politologo sosteneva infatti che la maggioranza degli americani ha istinti jacksoniani o jeffersoniani. Forse qualcuno alla Casa Bianca fa ancora affidamento su quella valutazione in vista delle elezioni di novembre.

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