La preghiera come problema politico
La quarantena-quaresima ha risvegliato la comunità orante. Rileggere un vecchio saggio di Daniélou per illuminare il valore pubblico dell’orazione
La pandemia sta risvegliando il senso del sacro e il bisogno di affidamento al divino. E’ una ricerca di presenze stabili laddove anche le certezze secolari più solide, quelle scientifiche e legate al progresso tecnologico, non danno punti di riferimento immediatamente intelligibili per il mezzo mondo costretto a casa dalla severa legge del distanziamento sociale. Una delle immagini più potenti delle ultime settimane è quella che ritrae Papa Francesco in pellegrinaggio quasi solitario verso San Marcello al Corso, dove è andato a implorare il Crocifisso miracoloso di fermare “con la mano” la pandemia. Il Papa ha convocato la chiesa universale per la recita del rosario nella festa di San Giuseppe, ha invitato il popolo a recitare insieme il padre nostro mercoledì prossimo, ha indetto l’indulgenza plenaria straordinaria, all’Angelus ha ribadito una volta ancora: “Alla pandemia del virus vogliamo rispondere con la universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza”. Questi richiami hanno contribuito a produrre un’altra immagine, anzi una lunga catena di immagini, che però non sono immediatamente visibili a tutti, dal momento che vanno pescate nelle novene via zoom, nelle richieste di preghiera sui social, nelle meditazioni con i vocali su Whatsapp, nei requiem e nelle implorazioni di miracoli, nell’infinito brulicare di inviti e proposte che descrivono la presenza, discreta ma non proprio trascurabile, di un popolo in preghiera.
Anche qui non mancano le goffaggini e le frizioni, si capisce. La Madonna di Loreto in volo su un aereo militare dal sud al nord dell’Italia, nell’atto di offrire la sua protezione da lassù, era un fake, ma si capisce che si sarebbe potuto diffondere soltanto in un clima di implorazione e attesa. All’inizio dell’emergenza, la tensione attorno alle forme della devozione si era per lo più consumata nella polemica sulle chiese chiuse, aperte o socchiuse, faccenda del resto non del tutto trascurabile per chi crede nella transustanziazione, e il sentimento religioso si era manifestato anche in un proliferare di messe clandestine se non addirittura di espatri domenicali verso diocesi svizzere o austriache, fin quando le frontiere sono state aperte. Sono successe, da allora, altre cose, tra cui sindaci con fascia tricolore che, alla faccia della laïcité, pregano la Madonna – vedi Luigi Brugnaro a Venezia, alla Beata Vergine della Salute – ma soprattutto è successo che un popolo s’è mobilitato in preghiera. La quarantena si è fusa con la quaresima. Ci sono famiglie che vivono la reclusione in modo monastico, alternando lavoro e preghiera, e circola nella comunità cristiana un certo desiderio di unirsi in preghiera comune. E il pattern sembra ripetersi molto simile anche al di fuori del perimetro cristiano: è un fatto religioso.
Rosari su Zoom, novene social, meditazioni su WhatsApp: un popolo in preghiera si è mosso, al seguito del Papa pellegrino
Un dramma di proporzioni bibliche impone richieste di aiuto addizionali, si capisce, ma le circostanze straordinarie di isolamento forzato fanno emergere un’altra qualità della preghiera, di solito messa in ombra dalla (falsa) dicotomia tra vita attiva e contemplativa. E’ la qualità “politica” della preghiera, per usare l’espressione che il cardinale gesuita Jean Daniélou ha voluto mettere nel titolo di un libretto uscito a metà degli anni Sessanta: “L’orazione, problema politico”.
La mentalità secolarizzata tende a concepire la preghiera come atto sciocco, talvolta anche meritevole di ridicolizzazione pubblica, ma soprattutto come gesto inutile, ché oppone uno vano sperare in un aiuto ultraterreno a un fare che invece cambia le cose, produce effetti, modifica il corso degli eventi. L’orante rimane nella sua immobile illusione, nel suo conforto psicologico, mentre gli altri fanno la storia. La circostanza della pandemia complica questa rappresentazione. La stragrande maggioranza delle persone in quarantena non può “fare” nulla per contribuire alla risoluzione della situazione; o, meglio, il suo fare coincide con un non-fare, con lo stare in casa e il più possibile lontano dalle altre persone. Per dare il proprio contributo, occorre stare fermi. E in questo collettivo stare fermi sono emersi molti rituali, dalle canzoni dai balconi al motto arcobaleno “andrà tutto bene”, che poi in una logica schmittiana potrebbero essere letti come sublimazioni laiche di cerimonie religiose. Sono forse più efficaci della preghiera? Hanno più valore dell’assemblea del popolo orante? Nell’assetto della quarantena la dimensione dell’azione diretta, misurabile, si svaluta, e per converso la preghiera diventa problema politico, nel senso in cui lo intendeva Daniélou: “La sfera del bene comune temporale”, che si esprime innanzitutto nell’educazione “dell’uomo inteso come collettività e non come individuo”. Può essere utile riprendere quel libro semi dimenticato per illuminare il fenomeno dell’orazione da quarantena. Per Daniélou, le dinamiche produttive che regolano l’età contemporanea e l’assetto di un mondo a trazione tecnocratica hanno reso la vita di preghiera difficile per l’uomo comune, tanto che è diventata un ideale perseguibile quasi soltanto per chi ha una regola claustrale. Scriveva Daniélou: “Dobbiamo reagire contro qualsiasi concezione che faccia della vita spirituale il privilegio di un certo numero di individui; essa tradirebbe ciò che è essenziale al messaggio non soltanto cristiano, ma religioso, e ciò significa che la preghiera è una vocazione umana assolutamente universale. L’orazione è, anteriormente al cristianesimo, un elemento costitutivo della vita umana in tutte le religioni. Ciò è riassunto nel Cristo, il cui messaggio è indirizzato ai poveri, intendendo con ‘poveri’ l’uomo qualunque che non ha alcuna specificazione, alcuna particolare attitudine, che rappresenta l’uomo medio”. Per questo uomo medio, il povero, “la realizzazione della vita d’orazione è praticamente impossibile”, visti i condizionamenti che sono posti ovunque. “Di conseguenza, la società è mal fatta. Essa lo è non soltanto perché ci sono uomini ai quali manca il pane, non soltanto perché ci sono relazioni umane che non sono trasparenti, ma anche perché c’è qualcosa di essenziale nell’uomo che non può manifestarsi: il mondo dell’orazione”.
Scrive De Chardin: “Non c’è nulla di più sbagliato che il vedere la religione come uno stadio primitivo e transitorio”
Una circostanza tragica ha improvvisamente rimosso, per molti, alcuni dei condizionamenti che rendevano la vita di preghiera impensabile. Non è certo una circostanza desiderabile, ma è imposta, ineluttabile, e ripropone quel desiderio di riunificazione di tutte le dimensioni dell’umano – spirituale, materiale, sociale – che il cardinale francese aveva messo al centro del suo scritto: “Quando la religione diventa un fatto puramente sociale, cadiamo in un cristianesimo sociologico, consistente in un certo numero di gesti, di abitudini, di tradizioni. Questo è del tutto insufficiente. Il cristianesimo sociologico deve eternamente tendere a trasformarsi in cristianesimo personale; la pratica religiosa deve sempre tendere all’orazione; l’atteggiamento interiore deve sempre tendere a corrispondere al gesto esteriore. Ma è vero anche il contrario: affinché esista un cristianesimo personale, è necessario che esista un cristianesimo sociale. Affinché la vita religiosa personale possa realizzarsi, essa necessita di quel minimo di ambiente al di fuori del quale normalmente è impossibile alla maggior parte degli uomini poterla praticare”. Il matrimonio della dimensione sociale e personale nell’esperienza religiosa non è mai stato tanto attuale quanto nel momento in cui i due elementi vivono, anche nell’ambito della secolarizzazione, un momento strano e contraddittorio. Azzerato il sociale, nel senso in cui lo si intende normalmente, rimane il personale, eppure i termini si intrecciano in modi difficili da comprendere. Le comunità religiose sono in qualche modo avvantaggiate, ché la preghiera, atto allo stesso tempo comunitario e personale, ambisce a risolvere la discrasia. Ma perché la preghiera dovrebbe essere importante per la dimensione politica? “Lo scopo fondamentale della politica – scriveva Daniélou – è quello di assicurare il bene comune. Ora, la possibilità di realizzazione dell’uomo in tutti i suoi livelli è un elemento essenziale del bene comune. E’ chiaro che nell’uomo la possibilità di realizzare il suo livello religioso è un elemento fondamentale [...]. Penso ad esempio a Simone Weil quando protesta contro la totale secolarizzazione, nel mondo contemporaneo, della società e del cosmo”.
Il riavvampare di un sentimento religioso in questa piega dolorosa della storia, la silenziosa mobilitazione di popoli oranti, appaiono, letti attraverso questo saggio, come segni di una rinnovata ricerca dell’uomo contemporaneo di realizzare il suo livello religioso. Daniélou era convinto che anche gli studenti che manifestavano a Berkeley, a Parigi e in tutto l’occidente contro il vecchio mondo stessero trasferendo nell’ambito della lotta sociale e politica, in modo acerbo, una questione fondamentalmente religiosa. E a questo proposito il cardinale citava, e non avrebbe potuto essere altrimenti, Teilhard De Chardin: “Raggiunto un grado superiore di padronanza di sé, lo spirito della terra scopre un bisogno sempre più vitale di adorare. Dall’evoluzione universale Dio emerge più grande e più necessario che mai. Non c’è nulla di più sbagliato che il vedere la religione come uno stadio primitivo e transitorio che l’umanità attraversa nel corso della sua infanzia. Più l’uomo sarà uomo, più sarà necessario sapere e potere adorare. La religione è una grandezza cosmica irreversibile”.