La grande sfiducia prima della pandemia
La crisi di fiducia di oggi non è iniziata con il populismo. La ricostruzione di un politologo tra le fattorie e il terrore degli intellettuali per Reagan
La sfiducia è una categoria fondamentale del momento pandemico che viviamo. Sfiducia nelle alleanze che dovrebbero garantire solidarietà fra stati amici, sfiducia nelle soluzioni, nei dati, nei presidenti che fino a ieri negavano la minaccia e ora non hanno una strategia per affrontarla, al netto di quello che gli scienziati politici chiamano l’effetto rally-round-the-flag. Non è però un affare che pertiene soltanto all’era trumpiana e nazional-populista: la sfiducia ha una storia ben più lunga, e negli ultimi decenni è diventato un elemento sociale e politico imprescindibile. Il politologo americano Darrell West, della Brookings Institution, ha scritto un libro che ricostruisce, anche attraverso il racconto della sua traiettoria di osservatore politico, l’avvento della grande sfiducia che ha diviso l’America e dunque il mondo, quella sfiducia che è stata precondizione del trumpismo. S’intitola “Divided Politics, Divided Nation: Hyperconflict in the Trump Era”, e proponiamo qui uno stralcio del primo capitolo, intitolato appunto “mistrust”, e dedicato agli anni di Reagan.
Quando stavo scrivendo la tesi di dottorato sulla campagna presidenziale del 1980, non avevo idea di quanto sarebbe poi diventata un’elezione decisiva. Il trionfo di Ronald Reagan quell’anno sarebbe stato l’inizio della “Reagan Revolution”, che avrebbe tagliato le tasse, ridotto la spesa interna, cambiato la politica sociale e costretto l’Unione Sovietica alla dispendiosa corsa agli armamenti che ha infine fatto cadere il muro di Berlino. Ma le azioni di Reagan sembrano moderate rispetto a quelle dei suoi successori. Nei decenni successivi il paese è passato da Reagan (e dal suo successore, George H. W. Bush) a Bill Clinton, poi a George W. Bush, a Barack Obama e infine a Donald Trump. Ognuno di questi ha cambiato la direzione dell’America in modo notevole. Questo periodo di quarant’anni sarà ricordato come un’era tumultuosa nella storia americana. I conflitti all’interno di ciascuna amministrazione hanno aggiunto materiale alla profonda sfiducia e antagonismo del paese. Ognuno di questi presidenti ha generato reazioni forti da parte degli oppositori.
Parlando con familiari, colleghi e amici nel corso degli anni, ho visto con i miei occhi la polarizzazione intensificarsi in ogni presidenza. La gente ha preso a reagire in modo sempre più personale. Nessuno si fidava di un presidente dell’opposto partito, e tutti temevano che potesse distruggere l’America che amavano. James Stewart ha notato che la politica in questa epoca è diventata “sport violento”, con un altro livello di conflitti e antipatie personali. Era una metafora adatta a questo periodo di tensioni.
La “Reagan Revolution”
Mio padre amava Ronald Reagan. Era un allevatore con trenta mucche da mungere due volte al giorno, e voleva un repubblicano che fosse duro sulla difesa, contrario al big government e dedito alla moralità, alle preghiere nelle scuole e alla sacralità della vita. Reagan per lui era un leader ideale, perché aveva capito i valori della small-town America e non guardava dall’altro verso il basso la gente ordinaria come faceva, a suo dire, l’élite delle coste e i politici liberal. Diverse circostanze personali lo hanno spinto verso destra. In quanto allevatore di animali da latte era spesso sottoposto a controlli da parte di ispettori che avevano il compito di garantire la qualità e la sicurezza dei prodotti. Facevano il giro della fattoria, ispezionavano i nostri strumenti e le stalle. Tutto quello che non era abbastanza pulito veniva segnato in una lista. Se un allevatore veniva segnalato diverse volte per la stessa violazione, l’ispettore aveva il potere di chiudere la sua produzione e impedire che il suo latte venisse venduto. Era una specie di “opzione nucleare” per gli ispettori, e talvolta vi ricorrevano per essere certi che i contadini prendessero le regole molto sul serio. Mio padre aveva abitualmente delle discussioni con questi sovrintendenti. Prendevano talvolta posizioni per lui ingiustificabili. Quando ero piccolo, allevavamo mucche e maiali. Abbiamo smesso quando un ispettore ci ha informato che maiali e mucche non potevano pascolare nello stesso campo, per evitare la diffusione di malattie fra specie diverse. Non avevamo abbastanza terreno per dividere bovini e suini. Mio padre si lamentò duramente per la decisione e pensava che fosse una arbitraria intrusione nel nostro business: l’ispettore era la personificazione di tutto quello che c’era di sbagliato nel governo [...]. Le proteste di mio padre finirono nel nulla, e così abbiamo venduto i maiali e ci siamo specializzati nel latte. Gli ispettori avevano anche obiezioni sui contenitori senza coperchio. Nelle stalle dove facevamo la mungitura avevamo secchi dentro i quali versavamo il latte. Gli ispettori insistevano che avessero un tappo ermetico per evitare le contaminazioni. Mio padre allora comprò una grande tino d’acciaio con un coperchio che lo sigillava perfettamente, e lo mise nell’area della mungitura, così gli ispettori avrebbero visto che rispettavamo le regole. Ovviamente non abbiamo mai usato, a parte quando ogni tanto facevamo quantità industriali di punch alla frutta per le riunioni di famiglia. Abbiamo continuato a usare i vecchi secchi per il latte, perché erano molto più comodi, ma almeno eravamo in regola. Questo non significa che le preoccupazioni degli ispettori non fossero del tutto legittime. Quando le mucche entravano nella stalla passavano proprio a fianco ai contenitori del latte. Un giorno ho visto una mucca fare la cacca direttamente dentro uno dei secchi pieni di latte. Ho chiesto a mio padre cosa dovevamo fare, lui è arrivato e ha tirato fuori a mani nude l’escremento. “Niente”, ha risposto lui, e ha versato il secchio di latte nella cisterna. Quella sera non ho bevuto latte. E nemmeno nei giorni successivi. In privato, mi sono avvicinato alle posizioni del governo sulla regolamentazione sanitaria.
Gli ultimi quarant’anni sono stati tumultuosi. I conflitti all’interno dei partiti hanno aggiunto dosi di antagonismo
Mia madre era conservatrice almeno quanto mio padre. Faceva a maglia vestitini da neonati per il centro di aiuto alla vita, la cui missione era dare sostegno a chi aveva una gravidanza indesiderata. Il centro proponeva alternative all’aborto, come l’adozione. Inoltre non era una grande fan dell’evoluzionismo come spiegazione dei fenomeni naturali. Durante un viaggio a Boston io e mia moglie, Annie, l’abbiamo portata in visita al museo di zoologia comparata di Harvard. C’era una famosa mostra di fiori di vetro nella quale un artigiano tedesco aveva creato modelli floreali che mostravano tutti i dettagli di ogni singola pianta. Camminando per il museo, ci siamo imbattuti in una mostra su un pesce preistorico, il celacanto. Si pensa che sia la specie più vicina ai primi anfibi, che hanno preso a strisciare dalle acque alla terraferma nell’era devoniana 400 milioni di anni fa, e così facendo hanno aperto la via alla comparsa degli esseri umani. Leggendo la descrizione dei principi evoluzionisti che accompagnava la mostra, mia madre si è avvicinata a Annie e le ha detto: “Sai, non riesco a credere a questa storia dell’evoluzione”. Annie insegnava nel dipartimento di ecologia e biologia dell’evoluzione alla Brown University, ma non ha detto niente. Ha pensato che fosse meglio sorvolare sul suo lavoro sull’evoluzione dei vegetali.
Avevamo coscienza della divisione fra stati “blu” e “rossi” prima che lo schema diventasse di uso comune nella politica americana. Le organizzazioni conservatrici erano una presenza forte nella mia cittadina di origine, cosa non sorprendente per una comunità rurale. Quando ero giovane l’Unione della temperanza per le donne cristiane era guidata da una vicina che andava nella nostra stessa chiesa. Faceva campagne contro i pericoli dell’alcol e la necessità di mettere fuori legge la produzione di liquori. Per un’amara ironia del destino, più tardi il suo unico figlio è diventato un alcolista ed è morto di cirrosi epatica. Altri vicini erano coinvolti nella John Birch Society. Si trattava di una organizzazione di destra nata nel 1958 e dedicata a un funzionario di intelligence e missionario battista ucciso dai comunisti cinesi. Il motto del gruppo era: “Meno stato, più responsabilità e, con l’aiuto di Dio, un mondo migliore”. Chiedeva un inquadramento degli affari del governo americano all’interno dello schema giudaico-cristiano e si opponeva alle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni multilaterali. Era contrario al movimento per i diritti civili e si opponeva ovunque al comunismo.
La divisione culturale è più profonda di quella politica. Vivevamo in stati “blu” e “rossi” prima che l’espressione fosse in uso
Mia zia Martha aveva una preoccupazione più localizzata: il fluoro nell’acqua. Infermiera originaria di Cincinnati, era certa che il piano del governo di aggiungere il fluoro nell’acqua per prevenire le carie fosse un complotto dei comunisti per mettere in ginocchio l’America. Ogni volta che si citava il fluoro lei attaccava una tirata sulla sua profonda sfiducia nel governo. La sua ricetta per una lunga vita era evitare l’acqua con il fluoro e farsi un lavaggio intestinale quotidiano. Le sue idee sul fluoro nell’acqua erano analoghe a quelle del generale Jack D. Ripper ne Il dottor Stranamore. Il generale Ripper spiega al capitano Lionel Mandrake: “Non posso più permettere l’infiltrazione comunista, l’indottrinamento comunista, la sovversione comunista e il complotto internazionale comunista per imputridire i nostri preziosi liquidi corporei...è ovvio, no? Una sostanza straniera viene introdotta nei nostri preziosi fluidi senza che uno se ne accorga. Di certo senza che questo lo scelga. E’ così che i vostri comunisti duri e puri agiscono”.
In quanto membro della famiglia che viveva in una grande città, zia Martha era la nostra autorità sulle questioni razziali. La nostra comunità era al 100 per cent bianca, ma lei lavorava con molti afro-americani in vari ospedali urbani, cosa che le permetteva di avere un’esperienza che nessuno di noi aveva. Eppure non parlava bene dei suoi colleghi di colore e si lamentava della loro indolenza. Era single e costantemente preoccupata dal crimine, specialmente dagli attacchi di quelli che chiamava “gli scuretti”. Ero perplesso dall’atteggiamento razzista e dagli strani comportamenti di mia zia. Non ho mai capito perché odiasse gli afro-americani e dicesse cose così terribili su di loro. Non ho mai avuto a che fare con le minoranze fino al college, e ho sempre trovato la profonda paura che molti sentivano riguardo alla razza difficile da capire. Quando mi sono iscritto al master alla Indiana University, ho deciso di dedicarmi alle campagne elettorali per il mio dottorato. Mi piaceva la strategia politica e il modo in cui i candidati mobilitano gli elettori e costruiscono coalizioni elettorali. Con l’approssimarsi delle elezioni del 1980 ho deciso di studiare le tattiche che i repubblicani e i democratici usavano per vincere le elezioni. Se la politica era l’arte della persuasione, volevo capire come facevano a metterla in atto. Grazie a una borsa di studio della National Science Foundation, ho viaggiato per il paese al seguito dei vari candidati. Dal lato democratico, ho parlato con i principali consiglieri di Jimmy Carter, con lo sfidante Ted Kennedy e l’emergente Jerry Brown. Kennedy stava tentando di detronizzare un presidente in carica del proprio partito. Ma la sua era la campagna più disorganizzata fra quelle che ho visto. Carter usava invece tutti i vantaggi di essere in carica e presentava la crisi degli ostaggi in Iran come scusa per la sua “strategia del Rose Garden”, cioè nel fare campagna senza uscire dalla Casa Bianca. Derideva il carattere di Kennedy e commissionava spot televisivi sulla sua famiglia, mentre i suoi mettevano in giro voci sulla sua mancanza di valori famigliari [....].
All’inizio della campagna ho stretto la mano a Reagan dopo un comizio in New Hampshire. A dispetto di tutte le foto di lui che spaccava legna, ho concluso dal breve incontro che l’uomo aveva fatto pochissimo lavoro manuale nella sua vita e aveva la mano più morbida che avessi mai stretto. Con un piccolo gruppo ho partecipato a una festa per l’annuncio di George H. W. Bush nel quartier generale in Virginia. Ho incontrato un uomo distinto di nome Jim Baker, che guidava la campagna di Bush. Non sapevo molto di lui ma sono rimasto colpito dal suo eloquio e dalle brillanti osservazioni sul processi politici. Non avevo idea che sarebbe diventato uno dei principali consiglieri di Reagan e poi segretario di stato. In seguito al suo trionfo storico, l’uomo della California ha presieduto su una radicale trasformazione dell’orientamento del paese. Questo avrebbe cambiato l’equilibrio della politica americana in una direzione conservatrice. Con i suoi alleati al Congresso, avrebbe tagliato le tasse, ridotto la burocrazia e rallentato il ritmo di crescita del welfare. Ha dimostrato capacità di costruire una coalizione di conservatori, indipendenti e democratici disillusi con le posizioni del proprio partito su questioni sociali e politica estera. Il presidente ha saputo tenere insieme queste anime in un movimento che avrebbe costretto i democratici a spostarsi al centro e avrebbe concesso ai repubblicani di tenere un’agenda ancora più conservatrice. L’Unione sovietica si sarebbe trovata davanti una massiccia forza militare, che avrebbe infine mandato il paese in bancarotta e avrebbe fatto collassare il comunismo. Questo ha messo fine alla Guerra fredda e ha inaugurato il periodo di dominazione americana.
Al contrario della mia famiglia delle campagne dell’Ohio, entusiasta per l’ascesa di Reagan, i miei colleghi alla Brown lo odiavano, ed erano convinti che rappresentasse i peggiori elementi della politica americana. La maggior parte di loro pensava fosse un fanatico, cinico e stupido. Per loro era un ciarlatano che aveva circuito gli elettori con il suo stile popolare, ma sotto sotto era un leader pericoloso e malvagio. Nel tentativo di mobilitare l’opposizione al governo, gli studenti hanno escogitato modi creativi per protestare. Un tipo intraprendente di nome Jason Saltzman, preoccupato dal rischio di una guerra nucleare sotto il belligerante Reagan, organizzò un referendum studentesco per chiedere all’università di stoccare “pillole per il suicidio” da usare volontariamente nel caso il presidente repubblicano avesse deciso di premere il bottone nucleare.