Il senso dell'educazione dopo la pandemia
La scuola serve a formare persone adulte, non solo a mandare studenti all’università. Spunti per riflettere sui fondamenti di un sistema fragile
Uno dei molti effetti deleteri della pandemia potrebbe essere quello di scoraggiare le iscrizioni all’università, tendenza che ha conseguenze sociali ed economiche notevoli e che l’Italia ha già sperimentato negli anni della Grande Recessione. Siamo dunque sulla soglia di un nuovo precipizio per un’istruzione superiore già gravata da fragilità e incertezze croniche. La circostanza drammatica offre però anche un’opportunità per riflettere sul sistema educativo nel suo complesso, ponendo al centro del dibattito i criteri stessi con i quali si giudica il successo di un percorso scolastico. Spesso i legislatori si sono concentrati quasi esclusivamente sulle percentuali di iscrizione all’università dopo il diploma, un indicatore importante ma limitato e forse addirittura fuorviante. Un gruppo di intellettuali conservatori americani ha contribuito di recente alla pubblicazione di un volume intitolato “How to Educate an American: The Conservative Vision for Tomorrow’s Schools”, il cui scopo consiste nel ridiscutere non tanto le strategie per la pianificazione di sistemi scolastici più efficienti ma porre nuovamente il tema dello scopo. A cosa serve l’educazione? Qual è lo scopo della scuola? Come si misura, dunque, il suo successo? Nell’intervento che pubblichiamo di seguito Ramesh Ponnuru, fellow dell’American Enterprise Isntitute, sostiene che lo scopo della scuola è aiutare i genitori a formare adulti, e da questa convinzione muove per delineare alcune riforme nel modo di pensare al sistema scolastico. Pensieri particolarmente preziosi in vista della crisi che verrà.
Nel discorso sullo stato dell’unione del 2010, Barack Obama ha detto: “In questa economia, un diploma superiore non garantisce più un buon impiego”. Ha chiesto così al Congresso di prendere alcune misure per rendere le università più economiche e accessibili. Il predecessore di Obama, George W. Bush, aveva posizioni molto diverse su tanti temi, ma i due su questo la vedevano allo stesso modo. Quando ha accettato la nomination presidenziale per un secondo mandato, nel 2004, Bush ha denunciato il fatto che troppi pochi americani avevano un diploma universitario e ha promesso di “aiutare sempre più americani a iniziare la carriera con una laurea”. Entrambi i presidenti parlavano dall’interno di un perimetro di consenso bipartisan in vigore da decenni. Questo sostanziale consenso ha considerato l’educazione universitaria come un prerequisito per i successi individuali e della nazione. Con il progressivo divorzio fra gli stipendi fra i laureati e i diplomati, genitori e politici hanno cominciato a ritenere essenziale che i giovani prendessero la laurea dopo la scuola superiore. In quel modo avrebbero ottenuto stipendi di prima fascia e l’economia avrebbe goduto dei benefici di una forza lavoro istruita. Le università concordano con questa prospettiva anche a prescindere dal loro interesse materiale. Perciò la promuovono e tenderanno a farlo sempre di più nei prossimi anni, quando i cambiamenti demografici ridurranno le iscrizioni universitarie e porteranno alla chiusura molti college. Il consenso secondo il quale mandare sempre più giovani all’università dovrebbe essere una priorità si è leggermente indebolito ai margini, ma in generale rimane forte [...].
“Legislatori, educatori e genitori pensano che lo scopo della scuola sia l’accesso all’università. Questa idea si è insinuata ovunque”
Lo stato e la nostra cultura in generale hanno dato vita a sforzi comuni importanti per aumentare il numero di iscritti all’università. Per un lungo periodo, la strategia ha dato i suoi frutti. La percentuale di giovani laureati è aumentata stabilmente per diversi decenni; questo aumento è coinciso con un enorme incremento della ricchezza del nostro paese, e che le tendenze si sovrapponessero era perfettamente naturale. Ma quella strategia potrebbe essere arrivata al punto in cui non dà più i risultati sperati. Alcuni dei nostri apparenti successi nell’aumentare le immatricolazioni hanno finito per mandare all’università anche tanti che non erano pronti per affrontarla. Il tasso di abbandono, infatti, è piuttosto alto. Secondo il National Center for Education Statistics più di un terzo degli studenti che si è iscritto ad un corso di laurea di quattro anni nel 2003 non ha ottenuto una laurea nei sei anni successivi. Il Bureau of Labor Statistics ha rilevato invece la buona notizia: gli stipendi di quelli che si sono iscritti al college, pur non essendosi laureati, erano più alti di quelli di chi non è andato affatto all’università. Purtroppo erano più vicini agli stipendi di chi non si è mai diplomato alle superiori che ai laureati. E il gruppo di chi ha fatto “un po’ di università” è gravato dai debiti. Anche molti fra i laureati non ottengono posti di lavoro che richiedono quel titolo. In una recente ricerca per il Manhattan Institute, Oren Cass ha notato che oltre un terzo dei laureati hanno posti di lavoro per i quali sono convinti che la laurea non serva affatto. Ha sottolineato due ricerche del Buring Glass Technologies e dello Strada Institute che osservano come dieci anni più tardi, quegli stessi lavoratori laureati continuano ad essere sottoimpiegati.
Inoltre, il 43 per cento degli iscritti alla prima superiore non arriva a iscriversi al college. Considerando questo dato, Cass ha calcolato che solo il 16 per cento degli studenti di terza media affronteranno il college e avranno un lavoro che effettivamente richiede una laurea, il che significa che solo una piccola minoranza di questi seguirà la traiettoria di carriera che il nostro sistema considera ideale. Questi risultati deludenti hanno indotto molti a mettere in dubbio l’idea che occorre essere molto rigidi nello spingere gli studenti verso l’università [...].
Il mio scetticismo verso il college come la strada principale, se non l’unica strada, verso un avvenire decente mi ha condotto ad occuparmi di politiche pubbliche che influenzano la carriera delle persone dopo la scuola superiore. La mia idea è che non dobbiamo smettere di dire ai ragazzi di andare al college, sperando che sempre meno vogliano iscriversi, e chiuderla lì. Quello che dovremmo tentare di fare, invece, è permettere a chi non va all’università di guadagnare stipendi buoni e contribuire alle comunità in cui vivono. Mi sono espresso in modo favorevole alle proposte di alcuni membri del Congresso di cambiare le regole che dispongono del sistema di accreditamento universitario, in modo da dare ai diplomati più opzioni rispetto al sistema tradizionale [...].
La convinzione che tutti debbano andare all’università ha anche implicazioni rilevanti sul modo in cui concepiamo l’educazione primaria e secondaria. Determina lo scopo stesso che attribuiamo alle scuole elementari, medie e superiori. Molto spesso, io credo, legislatori, educatori e genitori pensano che lo scopo di queste sia innanzitutto preparare i ragazzi all’università. Peggio ancora, talvolta pensano che lo scopo sia mandarli all’università, anche se non sono pronti. Questo assunto si è insinuato nelle scuole. Dopo la seconda c’è la terza, dopo le elementari ci sono le medie, e a ogni passo il lavoro dell’insegnante è quello di preparare gli studenti per il passo successivo. Quale sia il passo successivo è predeterminato, è uguale per tutti e cade all’interno dell’ambiente scolastico. Perciò l’idea che il college sia il passo successivo dopo le scuole superiori spesso è un automatismo [...]. Ciò che invece viene dopo la scuola superiore non dovrebbe essere necessariamente l’università, dovrebbe essere la vita adulta. La scuola dovrebbe aiutare i genitori a preparare i ragazzi a prendere decisioni responsabili. Dovrebbe introdurre in loro le conoscenze, le competenze e le disposizioni che li aiuteranno a prendere decisioni sagge, decisioni informate sulle opzioni che hanno davanti e su loro stessi. Questa missione è molto diversa da quella di preparare gli studenti ad affrontare un passo ovvio e predeterminato. Se concepiamo lo scopo della scuola in questo modo, anche i criteri per stabilire il successo devono cambiare. Una buona scuola superiore non sarà più quella che manda all’università un’alta percentuale di diplomati in autunno, ma sarà invece quella che forma studenti che si laureano nel giro di pochi anni oppure trovano buoni posti di lavoro. Misurando il successo in questo modo una scuola otterrà un alto livello di credibilità nelle classifiche quando prepara davvero gli studenti per il college, mentre perderà credito quando manderà studenti all’università senza che questi fossero davvero pronti. La misura che propongo non è certo perfetta. Mettere troppa enfasi sulla percentuale dei laureati potrebbe indurre le università ad abbassare il livello, e qualcosa di simile è successo a livello scolastico.
“Ciò che viene dopo il diploma non dovrebbe essere necessariamente l’università, dovrebbe essere la vita adulta”
Raccogliere questo tipo di informazioni è naturalmente più complicato che affidarsi ai tassi di iscrizione, me questo non è un buon motivo per affidarsi ai criteri sbagliati per misurare il successo. Tenere d’occhio come le scuole superiori preparano gli studenti per il college o per il mercato del lavoro tenderà a correggere gli effetti negativi indesiderati dell’insistenza sul tasso di diplomati. L’incentivo consisterebbe nel rendere il diploma superiore appetibile agli occhi dei datori di lavoro. Se le scuole portassero a termine questo compito, forse i datori di lavoro scremerebbero meno i curricula che ricevono sulla base della laurea. In un mondo in cui il successo scolastico è definito sulla base del completamento dell’università e sull’occupazione invece che sulla percentuale di iscritti, gli amministratori scolastici che vogliono migliorare la loro reputazione avranno un incentivo a dedicare attenzione alla popolazione scolastica che non andrà all’università. Avranno anche interesse a orientare gli studenti verso la strada che si addice loro. Questo riorientamento delle scuole suggerisce anche il bisogno di cambiamenti sugli standard accademici [...].
Tutti gli studenti devono saper leggere e scrivere, conoscere i fondamenti della matematica, della scienza, dell’educazione civica; devono avere una certa familiarità con l’arte, la letteratura e la storia. Tutti dovrebbero essere sostenuti nello sviluppo di abitudini mentali e di condotta che permetteranno loro di diventare cittadini retti. Come ho notato prima, hanno bisogno di queste cose per diventare adulti in grado di scegliere come giocarsi la propria vita.
Ma sarebbe una coincidenza sorprendente se le cose che gli studenti devono imparare per il college si rivelassero identiche a quelle che occorrono loro per una carriera che non contempla l’università. Una confusione simile regna anche tra chi sta allontanando dal modello dell’ “università per tutti”, il che sembra suggerire che siamo agli inizi di un percorso di ripensamento di un modello che ancora determina in modo decisivo la nostra mentalità [...]. Se vogliamo dire che l’università non è per tutti, forse dovremmo dirlo, invece di cercare di cambiare il significato della parola “università”. Forse dovremmo anche considerare se è giusto pensare che la strada per il successo senza una laurea tradizionale debba implicare un certificato formale di apprendistato dopo la scuola superiore. E’ addirittura possibile iniziare questa preparazione durante la scuola superiore? E già che pensiamo alla tensione fra carriera e università, non dovremmo forse chiederci se il termine “carriera” in sé indichi un modo di pensare troppo ristretto rispetto al futuro degli studenti? Molti studenti non vogliono, e non avranno, il tipo di traiettoria professionale che la parola indica [...].
Non c’è niente di sbagliato nello scegliere di andare al college per chi partecipa a programmi di avviamento al lavoro. Non dobbiamo però giudicare queste iniziative sulla base dei loro effetti sulle immatricolazioni. I sostenitori dell’ “università per tutti” spesso dicono che i loro avversari sono elitari che vogliono lasciare l’accesso al college soltanto a pochi fortunati. Questi spesso notano che molti degli scettici sono essi stessi laureati, e i loro figli seguono quasi sempre le loro orme. I critici non devono farsi intimidire da queste prese di posizione. Potrebbero, invece, rivoltarle contro i loro stessi accusatori. Un sistema orientato verso l’iscrizione in massa all’università già ora avvantaggia una minoranza selezionata. Spesso ci inducono a ignorare coloro che non sono interessati a seguire questa via. Quello che voglio dire non è che tutti quelli che vogliono spingere più persone verso il college sono degli snob. Ma chi abbraccia questa visione devono venire a patti con il fatto che hanno contribuito a creare una cultura in cui le persone senza laurea sono talvolta giudicate come perdenti. Il dibattito sulle politiche educative è dominato, in ogni sua parte, da persone laureate che si aspettano che i figli si laureino a loro volta. Persone con titoli accademici delle università d’élite hanno un peso sproporzionato in questo dibattito, e spesso non si rendono conto di quanto siano pochi gli americani che vanno in queste università. Questi fatti distorcono il modo in cui pensiamo all’educazione anche se la maggior parte di queste persone hanno buona intenzioni. La distorsione si è aggravata da quando la vita sociale del paese è diventata sempre più polarizzata sulla base dell’educazione. Il punto è che quello che è giusto per qualcuno non è necessariamente giusto per tutti.