Napoli-Milan, ovvero io speriamo che me la cavo
Si gioca stasera, dunque siamo tra la congettura e la supposizione. A ottobre, all’andata, a casa nostra, fummo tonni: arpionati, tranciati e sfilettati. Orologio alla mano giocammo tredici minuti tredici: poi la cavalcata degli uomini dell’allenatore che la real casa aveva snobbato per l’olezzo di sinistra e per la tuta tamarra. Finì con quattro pappine e il clamoroso buco di un difensore debuttante da allora parcheggiato al deposito. Vivemmo il punto più basso della stagione e di molte stagioni a questa parte.
Epperò times are changing. Corre il trentesimo anno, di solito è anniversario di giubilazione per noi e misericordia compassionevole per gli altri che per tutto questo tempo hanno dovuto vedersela con noi. Eppure è commemorazione in tono minore, un’ora di qua, una di là, anche nelle reti proprietarie, intervistatori proni e dichiarazioni di routine. Il successo è ormai troppo lontano e la messa solenne non è di rigore. Abbiamo il sorriso mesto, nostalgia senza entusiasmo, orgoglio senza progetto. Brutte sensazioni. Aspettiamo soldi che non arrivano e forse non arriveranno proprio, c’è crisi nell’Asia lontana. La diarchia è composta e non pone più problemi ma la teocrazia sì, quando il dio non ha più l’antico smalto e vive alla giornata e in confusione. Abbiamo detto di volere uno stadio tutto nostro che esalti l’ambiente e rafforzi la squadra, per la Juventus ha funzionato davvero da dodicesimo uomo in campo ma ci accontentiamo di San Siro, monumentale certo ma catino deprimente per i troppi spazi vuoti. Abbiamo detto che vogliamo una squadra di italiani, effettivamente ne abbiamo qualcuno ma in giro ce n’è sì e no una ventina di bravini e nessun fuoriclasse: il vuoto dietro i Baggio, i Totti, i Del Piero, i Pirlo.
Non ci sono scorciatoie e i miracoli non sono possibili. Poche ore prima di scendere in campo, solo si può dire: io speriamo che me la cavo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano