L'antica verità del Bologna e la fine dell'éra Berlusconi
Nemmeno la conquista della coppa messa in palio da un noto operatore di telefonia mobile che permette di accedere all’Europa dei vorrei ma non posso: nemmeno questo potrà cancellare il quarto anno consecutivo di umiliazioni e schiaffoni. Comunque andrà dunque sarà un insuccesso. Bologna ha confermato la verità trasmessa da vecchi e venerati maestri, in dieci si gioca meglio, meno confusione, meno intasamenti in campo. Giocare in undici è una convenzione, è come l’orario di lavoro uguale per tutti, tabella da contratto collettivo: il pubblico avvertito ragiona in frazioni calciatore, chi gioca a metà, chi a un terzo, chi a un decimo, a conti fatti dieci bastano per far fare una figuraccia a undici che sembrano sì e no in sette.
A fine partita ci mancava pure l’espressione corrucciata di Galliani che con un secco gesto della mano ha intimato alla moglie di restare seduta. Ma come, il signor amministratore delegato dell’area tecnica e sportiva è sorpreso, non si capacita? Da quando abbiamo fatto cassa con Ibra e Thiago e regalato Pirlo, questo siamo, fra settimo e decimo posto: Bologna è lo specchio della nostra vera natura, della nostra anima, in quattro anni si è giocato decentemente solo a tratti, un autunno con Inzaghi e qualche settimana con Mihajlovic, fino a quando non si è infortunato Niang, il sellero nero che è quanto di più efficace abbiamo per allungare la squadra, allargare il campo e aprire spazi alle prime punte.
Parole crudeli ma sante quelle di Zvonimir Boban: l’era di Berlusconi è finita. Ora siamo a un bivio. Italiani che possano raccoglierne l’eredità non se ne vedono, il solo papabile era Giorgio Squinzi, che ha fede milanista, ama il calcio e sarebbe un grande presidente, pacato ma fermo, ci porterebbe in dote Eusebio Di Francesco e un paio di campioncini. Ma si è già sfilato: dice che gli basta il Sassuolo e lo possiamo capire. Smettiamo perciò di raccontarci le favole della buona notte, di inseguire sogni, la rinascita non è per domani, nemmeno se dovesse tornare Ibra, che è fisicamente integro e ancora devastante ma ha 35 anni e non può essere al centro di un progetto. La risalita comincerà quando, Pechino or not Pechino, la governance sarà affidata a qualcuno che appartenga al suo tempo e sia lungimirante. E magari abbia pure un po’ di culo. Fino ad allora, aceto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano