A.A.A. Cercasi disperatamente leader per il partito della trattativa
Roma. Il populismo giudiziario, pur continuando a fare danni, soffre nella sua rappresentanza una crisi di leadership evidente. Col senno di poi, anche in questo caso, si può riconoscere come esiziale l’operato di Antonio Ingroia. L’esito disastroso della sua candidatura, con il simbolo di “Rivoluzione Civile”, alle elezioni politiche di tre anni fa, ha portato l’area politica che era rimasta irretita in quella operazione a sostituire, nelle liste per le successive elezioni europee, i pubblici ministeri con i giornalisti di Repubblica. I risultati non sono stati smaglianti ma almeno hanno consentito il superamento del quorum. Da allora qualsiasi esponente della variegata e litigiosa area a sinistra del Pd, quando vede profilarsi all’orizzonte Marco Travaglio cambia marciapiede. L’unica eccezione, forse, è Maurizio Landini ma solo perché dev’essere lento di riflessi. Per di più le novità intervenute in un arco che va da Tsipras a Corbyn hanno resettato l’interesse prioritario di quella sinistra italiana. Così quello che potremmo definire “il partito dei pm” si trova costretto in uno spazio angusto per cause squisitamente politiche, ovvero la difficoltà di continuare a colonizzare una quota di elettori di sinistra e l’avvenuta colonizzazione da parte di Grillo dell’elettorato che aveva seguito Di Pietro.
A questo scenario si aggiungono l’impasse del processo sulla trattativa, il disastro dell’antimafia di Crocetta, l’inchiesta per corruzione al tribunale di Palermo. Ma soprattutto non c’è una figura di leader in grado almeno di superare l’ostacolo Crozza, rivelatosi devastante nel caso di Ingroia, tanto da rendere sconsigliabile rimettere come front man un altro magistrato palermitano. Pier Camillo Davigo si è sottratto per tempo e perentoriamente alle lusinghe di Travaglio che lo propose alla testa di una nuova formazione politica in un bizzarro tandem con Landini. Fu poi la volta del procuratore aggiunto calabrese Nicola Gratteri, inizialmente arruolato da Renzi in una commissione di studio a palazzo Chigi sulla riforma giudiziaria e poi finito nel cono d’ombra del premier. Ciò fece impennare le sue azioni presso i critici di Renzi, ma quando in un dibattito televisivo sulla droga Gratteri sostenne che, fosse stato per lui, anche alcol e sigarette avrebbero dovuto essere fuori legge, anche i suoi sostenitori compresero che le uniche speranze di carriera politica per il personaggio erano fuori dai confini dell’UE, forse in Iran.
[**Video_box_2**]Ma un’altra speranza restava, la più ambiziosa: Raffaele Cantone. Magistrato coraggioso, capace di portare alla sbarra il ghota dei casalesi in un maxi processo ben costruito che ha prodotto pesanti condanne. Anche lui reclutato da Renzi, come autorità anti corruzione, ma proprio per questo si pronosticava una rapida rotta di collisione con il premier o almeno il suo giglio magico. Invece no. Dopo aver criticato Rosy Bindi per le sue esternazioni pre elettorali, Cantone in un dibattito col direttore di questo giornale ha criticato le correnti del Csm ma anche alcuni capisaldi del pensiero costitutivo del partito dei pm a cominciare dall’obbligatorietà dell’azione penale. A quel punto Travaglio procedeva alla scomunica con apposito editoriale. Dunque, alla fine della fiera, nessuna icona antimafia politicamente spendibile in chiave anti renziana? Ce ne sarebbero due, ma sono il capitano Ultimo e, forse, il presidente del Senato Pietro Grasso. La loro disponibilità è, per così dire, improbabile ma soprattutto il processo di riabilitazione, pur timidamente iniziato, appare troppo laborioso se solo si considera la pesantezza delle accuse politiche e, nel caso di “Ultimo”, anche giudiziarie rivolte loro da chi oggi si trova a difenderne il ruolo. Non resta che Sabina Guzzanti.
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