Predappio al collo
D. M. SACRVM
Il fascismo non è vivo e non è morto. Dorme. Lasciamolo dormire. Ma gli italiani, ancora oggi, non sono abbastanza saggi, prudenti ed equanimi per tenersi alla larga dal fantasma addormentato; ed è per questo che l’idea in sé buona di musealizzare il Ventennio a Predappio va rinviata, se non respinta e basta. Come sostiene un collega togliattiano (esistono ancora, per fortuna, perfino nell’anno III dell’èra renziana): si può storicizzare soltanto ciò che è già storia, non quel che ancora è lotta politica, materia incandescente, ideologia e conflitto. Fosse per lui, il Museo del fascismo avrebbe appunto dovuto farlo Togliatti, non certo Franceschini. Una battuta, forse, ma con un fondo di dolente verità.
La protostoria del museo in questione è uno scoop del Foglio e risale alla metà di settembre scorso, quando il sindaco di Predappio (Giorgio Frassineti, pd, renziano) ci disse: “Voglio un museo del fascismo, anche se so che museo non è la parola giusta, perché un museo monumentalizza, celebra, e io non voglio celebrare ma voglio soltanto raccontare, mettere in mostra. Per capirci: voglio questo museo per la stessa ragione per cui in Germania si trova il museo della Shoah: la storia, per comprenderla, la devi guardare negli occhi, anche se può fare male. Mi dicono: fermo, così celebri, non racconti, così trasformi Predappio nella Mecca dei fascisti italiani. Stronzate”. Sempre sul Foglio, due liberali e affermati storici come Giovanni Sabbatucci e Paolo Mieli hanno poi dato sostanza accademica alle ragioni del sì e a quelle del no intorno al disegno di Frassineti: “Un museo che potrebbe perfino chiamarsi ‘del fascismo e dell’antifascismo’, tanto per dissipare ogni possibile dubbio, avrebbe la funzione di offrire, là dove oggi c’è una raccolta di cimeli, un serio itinerario di conoscenza e di approfondimento storico” (Mieli). “Già immagino il museo del fascismo di Predappio diventare oggetto di contese e lamentele senza fine, che di scientifico avrebbero ben poco. Non credo che la cosa cambierebbe nemmeno se, invece di Predappio, si scegliesse una sede nazionale più importante” (Sabbatucci). Nel frattempo il professore emerito e comunista Luciano Canfora, dal Giornale, aggiungeva dubbi e sospetti: “Che senso ha un museo? Il museo dà un’idea di staticità, un luogo in cui i pezzi vengono accolti per il loro valore simbolico… Il fascismo è un momento della storia d’Italia: monumentalizzarlo in modo isolato non mi pare un procedimento critico, ma enfatico, addirittura celebrativo. No, non mi sembra una scelta felice”.
Da allora a oggi, i progetti per l’allestimento del museo sono andati avanti: “2.700 metri quadri con una torre alta 40 metri, tre piani circondati di marmi e facciata in stile razionalista. Costo dell’operazione: circa 5 milioni di euro, una parte dei quali dovrebbe metterli il governo”. Ubicazione: l’ex casa del Fascio. Ma “l’Anpi rilancia: un centro studi sulle dittature del ’900 e sugli atroci crimini del fascismo”. Così giovedì sul Manifesto, in un articolo per lo meno antipatizzante intitolato “Predappio. Fasci da museo”, a firma Mario Di Vito. Accanto, un commento di Davide Conti nel quale s’ironizza sulla data prevista per l’inaugurazione, il 2019, “peraltro centenario della fondazione dei fasci di combattimento di Mussolini” e ci si domanda retoricamente che fine farebbe un’eventuale lapide esorcizzante apposta sul museo del fascismo, a imitazione della pietra memoriale incollata al numero 15 di Salzburger Vorstadt, a Braunau am Inn, domicilio nativo di Adolf Hitler (“Pace, Libertà, Democrazia. Mai più fascismo. Milioni di morti ricordano”).
Tralascio volutamente il corteggio delle altre considerazioni pubbliche, quelle provenienti dai politici di questo o quello schieramento, perché nulla aggiungono al tema se non un che di limaccioso e molto sottraggono alla necessità di guardare in faccia l’abisso senza doppi fini, occhi cisposi e malanni ereditarii. Ricordo solo che nella breve stagione in cui Gianfranco Fini sembrò interessante, perché osò ribellarsi al suo patrono ed ex socio di governo Silvio Berlusconi, uno dei giovani intellettuali post missini allora più in voga mi disse in confidenza: il modo migliore, oggi, per essere ancora fascisti, è gettarsi a capofitto nella retorica dell’antifascismo. Che altro? Ma qui, scusatemi, si va sul personale.
La prima visita a Predappio, nel sacrario di Benito Mussolini, non fu per “emancipare quel luogo dalla funzione di meta nostalgica” come vorrebbe Mieli quando incoraggia il progetto del già controverso museo. No. Mi ci hanno portato i genitori quando ero ragazzino, assieme ai miei fratelli. Gita ludico-celebrativa sulle note di “Giovinezza” in una delle tante estati trascorse sul litorale romagnolo, lacerto abitudinario del ramo materno proveniente da Imola. Lì, in quel momento di radiosa innocente fanciullezza, al secondogenito di un fascista democratizzato (tendenza Giorgio Almirante) e d’una democratica un po’ fascistizzata (tendenza Mario Scelba) venne inoculata la legge inesorabile del karma, in estremo omaggio alla memoria di un nonno materno monarchico-fascista fino al 25 luglio del 1943 e di un nonno paterno fascistissimo marciante su Roma, reggente di un quartierone durante il regime, e fedelissimo fino a dopo Salò; con tutto il corredo d’inevitabili, et pour cause, persecuzioni post belliche, la caccia dei partigiani, la clandestinità, l’epurazione, le confische… Dev’esserci ancora in un cassetto la pistola fumante di quel giorno (hai voglia qui a pistole fumanti…), una foto che mi ritrae sorridente nell’inconscia rigidità del saluto fascista, il braccio teso e dunque storto per la naturale conformazione articolare umana, un saluto nient’affatto avvolgente e inclusivo e ieratico come quello romano ancora esemplificato dal Marco Aurelio del Campidoglio. Ecco, da quel preciso momento non avrei più potuto dire di me – se non a prezzo di una doverosa, faticosa e sacrosanta metànoia –: sono figlio della Terra e del Cielo stellato; no, da quel momento ero il figlio di una tempesta sconfitta, di un’opera al nero come le camicie e le bandiere e le divise lugubri (lecite soltanto per la devotio degli Arditi nella Grande Guerra, avrei imparato) che contornarono il pur superstizioso Mussolini Benito da Predappio (era assillato dalla jettatura).
[**Video_box_2**]La seconda (e almeno per ora ultima) visita a Predappio è di cinque anni fa, temo troppo rigida anche quella. Comunque funerea, incastonata com’era nel percorso cimiteriale che mi condusse da Dante (Ravenna) a Giorgio Gemisto Pletone (Rimini) passando per Arturo Reghini (Budrio) e appunto Mussolini. In quella circostanza la metànoia non era ancora fiorita, ma il karma famigliare era già bello che estinto da un decennio. Ebbe un senso ritrovarselo sulle spalle, non fosse che per decoro gentilizio, fu doveroso portarlo a destinazione con la militanza catacombale negli anni verdi, l’eroismo minuto (voluto e subìto) dell’esclusione e del rancore, delle botte date e prese, delle calunnie e delle controcalunnie, delle denunce e dei processi, delle carriere orgogliosamente scartate o mutilate e via così “nel tascapane di Calimero sempre pieno di mattoni da tirare contro le ingiustizie”, come insinua la mia amica Annalena scherzandomi quando mi vede cupo. Fatto sta che a quel punto, ormai, i ceppi di nonno Giulio erano finalmente sgretolati dall’espiazione vicaria dei suoi discendenti (anche i fratelli hanno fatto il loro dovere), la sua anima poteva volare in libertà. La mia storia del Novecento l’ho chiusa così, con questa semicertezza: chi ha perso aveva torto, anche se chi ha vinto non aveva tutte le ragioni. Poco importa che nel successivo, recente collasso della Repubblica italiana si sia avverata la sincope dell’Italia antifascista e democratica, che del Ventennio era stata figlia illegittima e parricida, scarnificatrice del suo socialismo previdenziale e inquilina privilegiata delle sue case popolari, beneficiaria delle sue riforme scolastiche e giuridiche, usufruttuaria perfino dei suoi tombini col fascio littorio impresso sui coperchi e mai più sturati, imitatrice blasfema delle sue liturgie pompose e dei suoi vizi strapaesani, clericali, conformisti (la pensa più o meno così anche Tommaso Cerno nel suo “A noi!”, Rizzoli, di cui ho già scritto qui). Ma questa sincope, questo melmoso tramonto senza termine non riabilita né resuscita neppure un grammo di totalitarismo. Dunque non c’è alcun fascismo vivente alle porte, e anche l’Ur-Antifascismus non si sente più tanto bene: lo dico al nostalgico illuso e al resistente irrequieto, entrambi infanti bisognosi di un padre da onorare o decapitare, entrambi vittime del peggior spiritismo tardo ottocentesco, quello delle seggiole e dei tavolini traballanti, mentre una povera donna medianica vomita larve appiccicose e vampiresche, orrendi e diacci volti di Meduse travestite da nobili (?) ideali chiamati neofascismo e anti(neo)fascismo. Con queste premesse, volete farci su un museo? Sarebbe “La casa d’inferno” esplorata da Richard Matheson nell’omonimo suo romanzo horror (Fanucci editore).
Di quanti nonni fascisti e antifascisti siamo ancora troppo figli o nipoti per ritenerci all’altezza del compito pacificatore? E del karma della patria, che poi è esattamente questo il punto, vogliamo parlarne? Troppo presto, troppo fresche le ferite, troppo pericoloso un museo.
Dopotutto, lo so, non è mica certo che la mia metànoia sia giusta e senza macchie come la percepisco, uno come Pierluigi Battista (“Mio padre era un fascista”, Mondadori), per esempio, ha deciso di espiare la sua mancata espiazione in età molto adulta e lo ha fatto mirabilmente. Eppure non riesco a vedere altri lasciapassare per dare degna sepoltura al nostro karma nazionale – che è la legge delle cause e degli effetti, la parola di Karmenta, dea del Fato cantato in versi saturni alla maniera dei vati e dei fauni – e, allora sì, prendere in esame la possibilità d’un Museo del fascismo. Una parte di me ha goduto, inizialmente, all’idea che possano realizzarlo proprio i renziani, poi mi sono domandato se questa sia la parte migliore di me ovvero un frammento veterocatacombale che esulta per un’operazione post ideologica che fa soffrire quelli che un tempo chiamavo “partigiano che scendi dai monti / depredando la povera gente / presto o tardi faremo anche i conti / ed allora giustizia sarà”. E’ la parte tentata dal gridare che il fascismo non fu solamente un mondo di squadracce e leggi razziali, caporalato e nazificazione ottusa (non importa se preterintenzionale o no, conta il risultato). Ma lo sappiamo tutti, perché abbiamo letto Renzo De Felice, anche se lo diciamo in pochissimi, lo sussurriamo in pochi, perché non siamo pronti. Pure questa non è una scoperta originale: per stare in società, dicono, urge dissimulare. E poi la memoria, si sa, è necessariamente selettiva. (Per me conta, adesso, ma anche questa è memoria selettiva, svelare che il fascismo pagano immenso e rosso, nel senso di Marte, è scolorato presto nel buio, fin dalla Conciliazione del 1929 preannunciata con le prime leggi liberticide del 1925. E che, se non si riparte da questo, non ci sarà mai destra che tenga: quella aennina di Fiuggi ha eluso l’intera questione in un oplà, e infatti è morta di smemoratezza e furbizia malriposta).
Quella parte di me – stupisce forse che dalla parola “parte” deriva il termine partigiano? – è sempre convinta che sarebbe giusto liberare dagli imbarazzi del Dopoguerra le mani del così detto “Genio del Fascismo”, un ragazzino di bronzo (come la prima volta a Predappio…) realizzato da Italo Griselli nel 1923, collocato all’Eur e poi trasformato in un improbabile “Genio dello Sport” coi cesti da pugile a occultare il saluto (quasi) romano. Quella parte, dicevo, l’ho ben strapazzata impaginando e titolando una pagina toccante che Daniele Bellasio ha dedicato a suo nonno nell’ultima collana estiva fogliante (“Mi manchi, stronzissimo eroe”). Suo nonno fu partigiano, nome di battaglia: Annibale. Poteva essere uno di quelli che dopo aver appeso Mussolini a testa in giù hanno inseguito in lungo e in largo anche mio nonno per scannarlo, magari dopo essere sfuggiti anni prima al suo moschetto. Per questo ci ho messo una cura speciale, nel confezionare la pagina di Daniele, una foto originale del nonno in abiti di guerriglia, titolo e catenaccio concordati con l’autore: doveva venire più che bene. Perché era l’omaggio commosso di un nipote italiano a un interprete dell’antifascismo che non tornerà mai più – forse, meno candidamente, era pure un modo ingenuo per sigillare un’epoca e immaginare in un giorno ancora lontano un trattamento simmetrico per chi ha combattuto dall’altra parte. La pace si fa così, perfino con Annibale? Il suo nome evoca il nemico ancestrale cartaginese, il mercantilismo cieco, il demonismo economicista, una doppiezza levantina e anti umanistica che desertifica. Ma Annibale Barca è morto e la visione del mondo di cui era portatore insano (ancorché grande generale), lei sì in buona salute, non la sconfiggeremo né col fascismo né con l’antifascismo, ma con la civiltà che per me è anzitutto latina e romana, il resto me lo dovete dimostrare.
(Ma i camerati d’una guerra che diranno? Quelli si arrabbiano comunque, e i compagni d’una sorte non cambieranno idea sulla cattiva reputazione cui teniamo ancora, malgrado tutto… non, rien de rien, non, je ne regrette rien).
Altroché se è giusto inventarsi un Museo del fascismo, ma oggi puoi farla in Danimarca, una cosa del genere, l’Italia non è ancora una nazione abbastanza matura per pensarla senza dividersi, senza rinfocolare dèmoni crudeli, le maschere peggiori di noi tutti. Sicché al Museo del fascismo non ci porterei mia figlia, così come mai la porterò a vedere la tomba di Mussolini. Ha quattro nonni felici: i due paterni sono come ho scritto sopra, un fascista democratizzato e una democratica un po’ fascistizzata; i due materni sono antifascisti coi fiocchi. Ma viva la faccia. E bene così. I genitori le racconteranno la storia delle rispettive famiglie, le indicheranno una via lontana dagli orrori del Novecento; alle amicizie che l’accompagneranno, ai libri che si sceglierà, al suo discernimento lasceremo il compito, in fondo secondario. L’essenziale lo conoscerà altrove: nell’aria, sulle montagne ammantate dal Sole, nei boschi e nei fiumi abitati dai numi, nelle grotte consacrate dagli avi, nella natura che non conosce sconfitta. Così, è da sperare, le generazioni che vengono, se fedeli al ricordo ancestrale di sé, se libere da ogni oscurantismo, se rese edotte dagli errori e dagli esempi che le hanno precedute, se illuminate dall’estinzione del karma famigliare, sapranno stupirci. E proclameranno la fatidica pace, la pax deorum. E infine, come canta Eros – ho studiato filosofia –, sarà… sarà l’Aurora.
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