L'ultima partita di Ugo Russo
Il pianto dirotto come perfetto finale di partita. Per lui è stata una conclusione logica.
Il pianto dirotto come perfetto finale di partita. Per Ugo Russo dopo quarantadue anni di carriera, è stata una conclusione logica, in linea con l’uomo. A volte le lacrime ingannano, questa volta no. Reazione umana e tenera di chi ama il suo lavoro (e del resto raccontare il calcio ed essere pure pagati, poco o tanto che sia, comunque è un privilegio). Ci saranno stati altri pensieri in testa che non sappiamo e non vogliamo sapere. Proprietà privata. La pensione e il tempo che scorre, i progetti realizzati e quelli che invece no, le delusioni e le speranze, la grande paura di tredici mesi fa, con il malore poco prima di andare in onda, il coma, il lento recupero e il glorioso ritorno. Nel giorno dell’ultima partita Ugo ha tirato fuori il vecchio cavallo di battaglia, il suo incipit barocco (e pure un po’ ridicolo) “il mio verbo torna a titillare i vostri padiglioni auricolari dallo stadio Armando Picchi da dove rifrangerà eventi e situazioni” che lo aveva accompagnato negli anni romantici della gavetta e delle tv private. Per noi che l’abbiamo conosciuto, nel mio caso prima da telespettatore e poi da collega, è stata un’emozione, il ricordo inscalfibile di un tempo lontano, senza HD, né spidercam, con l’inquadratura fissa sul conduttore (nello specifico lo strepitoso, rassicurante Lamberto Giorgi) e una voce appunto, la sua, collegata da Milano o Campobasso, Firenze o Catania. Pionieri di un calcio diverso, maglie di lana e tutto l’armamentario retorico, un giornalismo povero ma decisamente più nobile di quello di qualche tribuno fintamente tifoso, incazzato a comando a caccia soltanto di qualche “like” in più su Facebook.
Lui no. Lui, elegante e nobile, guitto sgangherato e creativo, artista vero, e non solo quando cantava o faceva il sosia di Demis Roussos.
Cosa abbia in testa adesso non è dato saperlo ma mi piace pensare che abbia chiuso così, dopo più di quattromila partite, con un match davvero speciale, un raggiante 6-0, lo stadio in festa e l’allegria malinconica del cronista che non se ne vuole più andare.
Il Foglio sportivo - in corpore sano