Altro che Pacifico
Il mistero buffo del paffuto Kim Jong-un. Il pivot asiatico obamiano si chiama riarmo.
Una sedia vuota. La televisione di stato che indugia per qualche secondo su quella sedia, e alla fine è costretta a confessare: il Supremo leader è ammalato, salterà il Politburo. Kim Jong-un, trentenne despota nordcoreano, terzo nella linea di successione dinastica dei Kim, non si fa vedere dal 3 settembre scorso. Secondo alcune fonti soffrirebbe di gotta, una malattia che rievoca il glorioso passato degli antichi (e golosi) re. Kim è ingrassato, ed è apparso pubblicamente zoppicante in più di un’occasione. Secondo fonti del Chosun ilbo, quotidiano antinordista sudcoreano, Kim Jong-un avrebbe invece subìto un intervento chirurgico alle caviglie – un leader carismatico come Kim Jong-un non avrebbe mai saltato un’assemblea del Politburo per un’infiammazione articolare. I controlli di sicurezza alla clinica Bonghwa di Pyongyang sono aumentati e l’auto personale di Kim non sarebbe mai uscita dalla capitale.
Cosa succede se Kim Jong-un muore? Non ha figli, e quindi la successione dinastica non è assicurata. “A livello politico nessuno lo sa”, dice al Foglio Gianluca Spezza, research director di NK news, “probabilmente un piccolo colpo di stato, una transizione che sarebbe comunque l’anticamera dello sfacelo. E’ probabile anche uno scontro tra fazioni, che ci sono sempre state”, anche dopo le purghe di Kim Il-sung. Ma la scomparsa improvvisa del leader porterebbe soprattutto a un disastro sociale: “Milioni di persone da contenere”, spiega Spezza, “nessun accesso via terra al sud (o quasi) frontiere chiuse credo anche al nord (perché altrimenti la Cina andrebbe in tilt); necessità di spiegare alla gente cosa è successo negli ultimi sessant’anni, e di ‘riprogrammare’ 20 milioni di persone, per così dire, per una transizione lunga e dolorosa. Servono psicologi, insegnanti, dottori, tecnici, ingegneri, scuole, ospedali, strade, rete fognaria, energia per le fabbriche e i reattori nucleari, di tutto. Un intervento umanitario che farebbe impallidire il piano Marshall, anche perché dovrebbe essere fatto in 5 anni o anche meno”. Tutto ciò, ammesso e non concesso che chiunque rimanga al potere “consenta un massiccio (e gratuito) intervento straniero (sudcoreano, americano, cinese, perfino giapponese), con rischio di rivelare l’entità reale del disastro umanitario, e far vedere al mondo esterno cosa sono (se, quanti e quali sono) i campi di lavoro, le prigioni, etc. Il guaio è che 20 milioni di nordcoreani oggi sono incapaci di adattarsi a una transizione, anche lenta. Ce ne vorrebbe una lentissima, ma se scompare KJU la vedo dura”.
Meglio i campi di lavoro? Giovedì scorso il cittadino americano 25enne Matthew Miller, condannato da un tribunale nordcoreano a sei anni di campi di lavoro per “atti ostili contro la Corea del nord”, ha parlato con i giornalisti stranieri. Ha detto che “nei campi si lavora per otto ore al giorno, il resto del tempo si vive in isolamento. Ma sto bene e in salute”. E’ stata diffusa una sua foto in tuta grigia, con un berretto in testa e il numero 107 attaccato sul petto. Miller è il terzo americano imprigionato in Corea del nord, insieme con Jeffrey Fowle e Kenneth Bae. Eppure Miller è un altro mistero per l’America, e ancora non è chiaro perché appena arrivato in Corea del nord abbia strappato i suoi documenti e abbia chiesto asilo a Pyongyang.
Cambio della guardia. La Corea del nord è attualmente la minaccia più concreta degli alleati americani nel Pacifico. Lo ha detto in un’intervista l’ammiraglio Samuel Locklear, che guida l’Us Pacific command dal marzo del 2012 e che sta per lasciare il braccio operativo del pivot asiatico di Barack Obama all’ammiraglio Harry B. Harris Jr. Per Locklear la Corea del nord è a un passo dallo perfezionare i missili intercontinentali KN-08 per piattaforme mobili, quindi molto difficili da individuare.
Non solo la Corea del nord. Il riarmo dei paesi del Pacifico ha preso il via dopo la modifica dell’interpretazione costituzionale del Giappone per dotarsi di nuovo di un esercito. La mossa di Shinzo Abe è stata accolta con favore da Washington. Il perché è presto detto: l’industria bellica ricomincia a funzionare. Tokyo ha ordinato 42 F-35 e sembra che abbia colloqui informali con funzionari americani per ingrassare l’esercito di armi con “capacità offensive”. Inoltre durante l’ultimo viaggio di Abe in Australia, Tokyo ha venduto almeno dieci sottomarini classe Soryu per un costo totale di 20 miliardi di dollari. Qualche giorno fa la Lockheed Martin Corp. ha firmato con la Corea del sud un piano di vendita di 40 F-35 per 7,1 miliardi di dollari. Washington è in procinto di cancellare l’embargo sulla vendita delle armi al Vietnam. La Cina non la sta prendendo per niente bene.
L’India is back. La visita di Xi Jinping dal nuovo primo ministro indiano Narendra Modi, a metà settembre, è stata oltremodo strategica. Pechino cerca una sponda con Nuova Delhi, che nel frattempo però flirta un po’ con tutti. Modi è molto legato a Shinzo Abe – lo dimostrano i cinguettii affettuosi che si scambiano su Twitter i due capi di stato – e lunedì sera ha presenziato alla cena con il presidente americano Obama (ha bevuto solo dell’acqua per via del digiuno che si fa durante i nove giorni di Navratri, una festa hindu). Basta leggere i giornali per capire la differenza tra la strategia del pivot asiatico obamiano ancora senza una rotta e l’incredibile pragmatismo del nuovo premier indiano. Ieri il Washington Post titolava un pezzo sull’incontro come “un’occasione per migliorare i rapporti tra i due paesi”, mentre quasi tutti i giornali indiani parlavano delle opportunità economiche di un’apertura all’America.
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