Kim, quanto mi costi
Il Supremo leader è tornato, ora basta parlare di riunificazione. Papere gialle e vertice Asem.
E’ tornato. Dopo quaranta giorni di assenza, il leader nordcoreano Kim Jong-un è riapparso sulle cronache del giornale del Partito dei lavoratori nordcoreano, il Rodong Sinmun, che lo ha ritratto in prima pagina con un sorriso smagliante mentre visitava gli alloggi in costruzione degli scienziati che lavorano al programma spaziale e nucleare. In mano, al posto della consueta sigaretta, aveva un bastone, il che rende plausibile l’idea di un’assenza per un problema di salute. L’altra ipotesi, quella che il leader nordcoreano potesse aver perso il potere a Pyongyang, non sarebbe stata accolta bene nei mercati del Pacifico. Perché il passo successivo in caso di caduta della dinastia Kim sarebbe una trattativa per la riunificazione con il sud che, però, ha un unico e significante particolare: costa troppo. Nel suo libro “The Real North Korea” Andrei Lankov, professore di Studi coreani alla Kookmin University di Seul, ha messo insieme le ultime stime sui costi di una riunificazione: secondo uno studio del 2010 della Federazione industriale coreana stabilizzare la Corea del nord e poi colmare il divario con il sud costerebbe tremila miliardi di dollari. Per i più ottimisti (il think tank Korea Economic institute per esempio) duecento miliardi di dollari. In ogni caso, scrive Lankov, si oscilla tra 1,5 mila miliardi di dollari e i duemila miliardi di dollari e mezzo: “E’ molto più dell’intero pil della Corea del sud, che attualmente si aggira intorno ai mille miliardi di dollari”. Ieri George Friedman, chairman di Stratfor, ha detto che la riunificazione non avverrà prima del 2030, nonostante i nordcoreani abbiano chiamato il 2015 “L’anno della riunificazione”.
Mentre l’occidente era alla ricerca di Kim Jong-un, e subito prima che la Troika di Pyongyang preparasse i bagagli per il viaggio verso Seul, Corea del nord e Corea del sud si sono sfidate nella finale di calcio dei 17esimi Giochi asiatici che si sono svolti a Incheon (ha vinto il Sud, uno a zero, con un gol contestato dall’allenatore nordcoreano Yun Jong Su). Una settimana dopo la partita è passata nelle acque di confine, dove navi da guerra del Nord e del Sud si sono scambiate colpi di avvertimento intorno all’arcipelago di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, teatro nel 2010 di un bombardamento che fece alcune vittime.
Del resto a Seul hanno già i loro guai a cui pensare. Non bastava la papera gialla gigante, l’ormai famosa opera dell’artista olandese Florentijn Hofman, che si è sgonfiata improvvisamente mentre galleggiava in un lago di Seul. Non bastava il secondo membro del partito conservatore Saenuri, quello al governo, beccato in Aula a guardare foto di donne seminude sul proprio smartphone. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Korea Herald, il gruppo britannico Tesco sarebbe intenzionato a mollare la Corea del sud. Homeplus – così si chiama la catena di discount sudcoreani di proprietà della catena inglese – fino a poco tempo fa era il secondo rivenditore del paese. Poi il suo ceo, Do Sung-hwan, è stato accusato di aver venduto i dati personali di cinque milioni di clienti. In tre anni il margine di profitto della società si è dimezzato. E pensare che avevano avuto un’idea geniale: la spesa in metropolitana. La gente guardava i prodotti sui cartelloni pubblicitari aspettando il treno, li fotografava ed entro le 24 ore il prodotto gli veniva recapitato a casa.
In Giappone ci si scandalizza per molto meno. Il gruppo J-pop The Margarines, per esempio, ha tentato di emergere nell’industria musicale giapponese promuovendo una caratteristica particolare: le dieci ragazze del gruppo sono piene di debiti. Il debito totale di ognuna è consultabile nel loro sito internet e secondo la casa discografica cantare e sculettare è un modo come un altro per saldare il conto del college. Una sincerità che molti non hanno gradito (compreso il progressista Japan Times), leggendo un velato messaggio di prostituzione dietro lo spettacolo.
Intanto prosegue il pivot asiatico di Putin. L’altro ieri Mosca e Pechino hanno firmato ben 38 accordi commerciali. Il più importante, da 24,5 miliardi di dollari, riguarda lo swap di valuta tra yuan e rublo per ridurre la dipendenza dei due paesi dal dollaro. Un altro accordo riguarda l’esplorazione spaziale: l’agenzia russa Roskosmos ha firmato con la Cina un protocollo di cooperazione nel campo dei sistemi di navigazione satellitare. Ma a cambiare davvero gli equilibri della corsa allo spazio è l’India. Primo paese asiatico a raggiungere Marte, il programma spaziale indiano è rivoluzionario perché non mira a raggiungere obiettivi militari ma “gioca un ruolo enorme nel trasformare la vita degli indiani attraverso contributi in settori come l'alfabetizzazione, le previsione meteorologiche e disastri naturali, la telemedicina” (Sudha Ramachandran sul Diplomat). L’India di Narendra Modi spinge l’acceleratore, fa affari a Piombino con l’acciaio e – secondo l’Economics times di ieri – starebbe valutando una “posizione condivisa” sulla controversia dei Marò.
Del resto in questo momento tutti i leader del Pacifico sono in viaggio verso Milano (tutti tranne Modi) per il vertice Asem che si terrà giovedì e venerdì prossimo. La presidente sudcoreana Park Geun-hye, che dopo Milano si tratterrà qualche giorno a Roma, è al suo primo summit Asem ed è la prima presidente sudcoreana a visitare l’Italia da cinque anni. La conferenza stampa del premier giapponese Shinzo Abe, invece, è stata misteriosamente cancellata.
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