Ai tempi di Gogol'
Arrivato a Roma nel giorno di Pasqua del 1837, precisamente il 25 marzo, lo scrittore russo Gogol’ non ci mise molto a innamorarsi perdutamente della città, nella quale riconobbe la sua “patria dell’anima” e dove visse, con brevi interruzioni, per dieci lunghi anni. Se ne allontanava infatti solo nelle estati, troppo bollenti anche per un innamorato come lui (“in agosto, i cani urlano, camminando per strada”, raccontava a un corrispondente). A Roma prese la forma che oggi conosciamo il più grande ed enigmatico dei suoi capolavori, “Le anime morte” (“della Russia io posso scrivere solo a Roma, solo qui essa mi appare in tutta la sua grandezza”); e ancora oggi Gogol’ ce lo possiamo immaginare a spasso per la città, sempre molto elegante, eccentrico e di buonumore, come non sarebbe mai più stato in nessun altro posto al mondo: “Adesso a Roma ho pochi amici, o meglio, quasi nessuno (i Repin sono a Firenze). Ma non sono mai stato così allegro, cosi soddisfatto della mia vita”, scrive all’amico Aleksandr Semenovic Danilevskij il 2 febbraio 1838. A Roma, lo scrittore abitò in due diverse case, entrambe molto vicine a piazza Barberini: la prima era in via Sant’Isidoro (oggi via degli Artisti), la seconda in quella che oggi si chiama via Sistina, ma che a metà Ottocento per tutti era ancora confidenzialmente la “strada Felice”, dal nome del Pontefice che l’aveva voluta, aperta e risistemata, cioè Felice Peretti, Sisto V. La prima cosa che Gogol’ fece, in quel 25 marzo del 1837, fu andare a San Pietro per assistere alla messa pasquale celebrata dal Papa. Della basilica lo colpì la vastità: “Nella chiesa c’erano alcune migliaia di persone, ma ciononostante sembrava vuota”, raccontò in una lettera alla madre. E all’amica ed ex allieva Varvara Osipovna Balabina, che Roma l’aveva a sua volta visitata, scriveva così, in un italiano di cui conserviamo le preziose imprecisioni: “Le novita come sapete voi stessa non abita in Roma, qui tutto è antico: Roma, Papa, le chiese, i quadri.
A mio parere, le novita sono inventate da quelli, che s’annojano, ma sapete voi stessa che nessuno può annojarsi in Roma fiuorche quelli che hanno l’animo fredda come gli abitanti di Pietroburgo”. Dei romani, l’autore del “Naso” assimilò tutte le golosità. Gli piacevano il parmigiano, i maccheroni, i ravioli, i broccoli romani, l’abbacchio, il marsala, il caffè con la panna, il latte di capra mescolato con il rum, bevanda che egli aveva scherzosamente ribattezzato “gogol’-mogol’”, lo zucchero e i dolci in tutte le forme. Se la spassava, insomma. Ma quietamente, romanamente, ben lontano dalla frenesia, più simile a un lavoro, che durante il periodo passato a Parigi (la tappa del suo viaggio europeo immediatamente precedente a Roma, che lui chiamava “la Babele francese”), lo aveva del tutto sfinito e irritato. A casa della principessa russa Zinaida Volkonskaja, a Palazzo Poli, Gogol’ conobbe il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli. Nei suoi sonetti, raccontava Gogol’ sempre in una lettera alla Balabina, “c’è tanto sale e tanta arguzia completamente inaspettata, la vita dei trasteverini di oggi è riflessa con tale verità, che Lei riderà, e la nuvola grave che spesso copre la sua testa volerà via…”. Perché parliamo tanto di Gogol’ a Roma? Ma perché negli attuali, grami tempi che l’Urbe attraversa, e considerando la faccia mediamente ingrugnata del romano tipo, è bene ricordarsi del buonumore che questa città ha saputo suscitare. Basta leggersi “Roma”, il breve racconto che Gogol’ dedicò alla sua città prediletta (lo ha pubblicato Sellerio nel 2010), per trovare l’intatto incanto di tutto ciò che nessuno può rubarle (almeno fino a oggi). La luce, per esempio. Il principe protagonista del racconto, che insegue in alto, fino al Gianicolo, la bella popolana di cui è invaghito, arrivato alla chiesa di San Pietro in Montorio si deve fermare. Non per il fiatone, ma perché è felicemente sopraffatto dalla luce del tramonto che fa brillare e colora il “lucente ammasso di case chiese cupole e guglie”. Il principe si dimentica di tutto, perfino di se stesso, e riconosciamo nella sua emozione quella, palesemente autobiografica, vissuta da Gogol’. Meno riproducibili, purtroppo, altre estatiche esperienze gogoliane a Roma. Di quelle gastronomiche – parte essenziale della sua passione per la città, come raccontarono divertiti i suoi amici: lo trovavano da solo a banchettare in certe osterie sotto Trinità dei Monti, mentre i camerieri che ne conoscevano i gusti imbandivano spropositate quantità di cibo – delle gioie culinarie, dicevamo, ormai non è possibile compiacersi allo stesso modo. Oggi, in materia, Roma offre molte sòle, tanto per usare il vernacolo locale. Pizze improbabili, spaghettacci precotti, mesti panini: il menu (a peso d’oro, e anche con tariffe differenziate, più miti per indigeni, maggiorate per forestieri) che si va apparecchiando per il pellegrino formato Giubileo, demolirebbe anche il buonumore di Gogol’.
Nicoletta Tiliacos
Il Foglio sportivo - in corpore sano