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Dàgli al serpente

Nicoletta Tiliacos

La primavera rigogliosa, le erbacce che nessuno taglia più, la smemoratezza dei romani

Grazie alla trionfante primavera romana, oltretutto esplosa all’improvviso, dalle cronache cittadine cominciano a far capolino – anzitempo rispetto agli altri anni – alcuni pezzi di colore ormai diventati dei veri e propri classici. Di uno di questi classici locali è protagonista fisso un quasi mai meglio identificato “serpente” (si tratta quasi sempre di specie assolutamente innocue, di rettili bruttini ma paciosi, a parte rarissime eccezioni, come il serpente a sonagli scappato anni fa da un rettilario e catturato in un giardino di Montesacro. Ma in quel caso la lussureggiante primavera romana non c’entrava niente). “Avvistato serpente a Trastevere”; “Testaccio: serpente di oltre un metro arrampicato sul vetro esterno di un asilo” (in altri articoli leggiamo che i serpenti che hanno tentato di entrare nella scuola materna erano due); “Via Amba Aradam, serpente avvistato nel parco. Non è la prima volta”. Abbiamo buoni motivi per credere che non sarà nemmeno l’ultima. Quest’anno, le sortite improvvide di serpentelli e serpentoni in gita nell’Urbe potrebbero motiplicarsi, visto lo stato raccapricciante delle aree verdi cittadine: in tutti i parchi e i giardini, fino all’ultima aiuola spartitraffico, la malerba svetta rigogliosa e arrogante, mentre cespugli e alberi da tempo non potati si piegano mestamente verso terra, assomigliando così sempre più ai romani rassegnati. Romani che, sia chiaro, amano il verde e amano vedere la loro città in abiti primaverili, al massimo della sua già potente capacità seduttiva. E adorano soprattutto i praticelli mediamente incolti, quelli con le pratoline, le margheritine gialle, l’umile malva, il trifoglio, e anche i cespugli di biancospino, il pitosforo inebriante, i gelsomini… ma non amano affatto prati e praticelli in cui l’erba arriva ormai alla vita dei giocatori di basket, mentre i più piccini spariscono definitivamente. La giungla salgariana preferiscono vederla al cinema o – dotati di attrezzatura adatta – in viaggio con Avventure nel mondo. Ma tale è ormai la situazione, dal parco del Colle Oppio a Villa Ada. In posti semiperiferici come il parco della Caffarella o Mostacciano, poi, è ormai impensabile portare i bambini a giocare o i cani a spasso. Altro che serpenti: è strano non trovarci i coccodrilli. In un gioiello come Villa Sciarra, alle pendici del Gianicolo, è diventato spaventoso anche solo mettere piede, tanta è l’erbaccia, mentre la spazzatura si accumula da mesi. Da un capo all’altro della città, quello che si definisce burocraticamente “verde urbano” sembra piombato in una sorta di day after post atomico. Nell’abbandono totale prendono il sopravvento e fanno festa – a parte i poveri serpenti – le zanzare. Se gli appelli estetici nulla possono, dovrebbero almeno valere quelli che riguardano la salute pubblica. Eppure non si può far nulla, dicono, e infatti nulla si fa. Da un po’ di tempo, a ogni nuova manifestazione dell’incuria in cui versa Roma, ecco pronta la madre di tutte le spiegazioni: tutta colpa di Mafia capitale, è ovvio, e la storia del verde abbandonato non fa eccezione. La scoperta del turpe sistema di appalti inquinato dalla corruzione ha provocato l’annullamento degli appalti medesimi, sui quali faceva conto da anni il Servizio giardini per il decoro del verde cittadino. Fin qui, ci siamo. Ma di nuove gare per assegnarli – e di squadre comunque formate di addetti comunali muniti di falciatrici, di cesoie, di sacchi per la raccolta delle erbacce, come sarebbe logico aspettarsi in una città piena di zone verdi – nessuna traccia e nessuna notizia. Si attende forse l’arrivo del Natale, quando sui citati fatti delittuosi sarà stata fatta piena chiarezza e gli appalti potranno ripartire. Peccato che a quel punto il paesaggio romano sarà stato per sempre inghiottito dalla foresta primordiale, tornata padrona e regina di luoghi un tempo abitati dalla civiltà, e felci giganti avranno superato in altezza anche il Colosseo, mentre torneranno a scorrazzare i tirannosauri a villa Borghese e a villa Pamphili.

 

Quando i serpenti erano ben accolti

 

Sono Piagnoni Questi Romani, si dirà. La fanno tanto lunga per qualche erbaccia e per una biscia che ha perso l’orientamento e si è ritrovata a Trastevere. Non è andata sempre così. In tempi lontani, l’arrivo di un serpente a Roma poteva essere celebrato con la costruzione di un tempio. Questa, si narra, è anche l’origine della vocazione medica dell’isola Tiberina, che tuttora ospita un ospedale, il Fatebenefratelli. Nel 293 a.C., per vincere l’epidemia che infuriava in città, i senatori pensarono di costruire un tempio al nume della medicina, Esculapio, figlio di Apollo. Partì una delegazione per il santuario di Epidauro – anche all’epoca le inventavano tutte per viaggiare a spese del contribuente – allo scopo di ottenere una statua del dio. In quella circostanza un serpente (sacro a Esculapio) uscì dal santuario per imbarcarsi sulla nave romana. Da lì, tornata la spedizione nell’Urbe, il rettile scese per nascondersi sull’isola Tiberina. Era chiaro: inquel luogo doveva sorgere il tempio, che fu inaugurato nel 289 a.C. L’epidemia, si narra, finì subito dopo, e da allora l’isola Tiberina è luogo dedicato alla cura dei malati. Altri tempi, per i serpenti a Roma (e non solo per loro)

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