Alfonso Sabella (foto LaPresse)

Sabella e i “pm coraggiosi” sempre sospesi tra giurisdizione e cura del potere

Giuseppe Sottile
Evitate, se potete, di chiedere dov’è. Perché in questo momento starà di sicuro parlando con l’editore per decidere la data d’uscita del prossimo libro, scritto a quattro mani con il suo giornalista di fiducia, per cantare le lodi della giustizia più bella del mondo

Evitate, se potete, di chiedere dov’è. Perché in questo momento starà di sicuro parlando con l’editore per decidere la data d’uscita del prossimo libro, scritto a quattro mani con il suo giornalista di fiducia, per cantare le lodi della giustizia più bella del mondo; oppure starà discutendo con il produttore cinematografico per gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura del film che la Rai manderà in onda, con ogni probabilità, il prossimo 23 maggio, venticinquesimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, per sottolineare ancora una volta il proprio impegno antimafia; oppure starà nella redazione del giornale impegnato sul fronte della legalità per ribadire, in un’intervista ad ampio raggio, ci mancherebbe altro, la necessità di inasprire leggi e pene contro la corruzione. Oppure – e qui il riferimento è ad Alfonso Sabella – starà nella segreteria del candidato sindaco di Roma che lo ha appena designato come futuro assessore magari per preannunciargli una pubblica dichiarazione che poi, al di là delle intenzioni e delle successive puntualizzazioni, ha finito per mascariare, con una spruzzatina di facile sospetto, la candidata del partito concorrente.

 

E non chiedetevi nemmeno se lui – il magistrato in carriera che Roberto Giachetti voleva nella giunta capitolina – presti servizio in procura o alla Corte di assise o al Tribunale del riesame; o se, per meglio seguire la sua strada, si è messo in aspettativa. Perché un magistrato è per sempre, come il diamante della De Beers, e quando parla non sentirete mai l’alito cattivo di un particolare interesse politico; dalla sua bocca verrà fuori sempre e comunque il profumo iridato di tante belle parole messe insieme come in un bouquet di fiori: c’è il sapore della legalità e pure quello dell’antimafia; c’è il sapore della società civile e pure quello fascinoso e inebriante della rivoluzione: ricordate Antonio Ingroia, l’esuberante procuratore di Palermo che, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, imbastì il monumentale processo sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra? Se ne andava ai comizi, saliva sul palco con i Ray-Ban a goccia e la mano in tasca, e se qualcuno osava sollevare  un dubbio sull’opportunità di quel suo comportamento rispondeva, con urtante spocchia, che lui si riteneva un partigiano – “un partigiano della Costituzione” – e in quanto tale rivendicava il diritto di zampettare da una manifestazione politica a un’altra senza che nessuno potesse dirgli nulla. Meno che meno quei quattro imparruccati membri della commissione disciplinare del Csm. Perché se un magistrato è per sempre, il magistrato che ha intramato la propria carriera tra lotta alla mafia e interviste ai giornali, porta una croce d’oro sul petto ed è più uguale degli altri. Sono intoccabili, sono inattaccabili. Qualunque cosa dicano, qualunque cosa facciano. E non azzardatevi a sostenere che, magari, hanno buttato soldi su un’inchiesta senza capo né coda o che hanno istruito un processo senza prove. Non azzardatevi. Perché molti di questi intrepidi coltivano anche l’innocente vizietto di correre subito nelle stanze del piano superiore a piagnucolare “per l’oltraggio ricevuto”, a battere i piedini per ottenere “solidarietà e protezione” e a calare lì in mezzo, tra una gnagnera e l’altra, quelle due o tre paroline che sembrano fatte apposta per richiamare chissà quali congiure, chissà quali complotti, chissà quali attentati, chissà quale mafia alle porte. E’ la mistica della persecuzione. Ormai lo sanno pure le pietre: parole pesanti come “intimidazione”, o come “delegittimazione” verdeggiano da anni in un formulario grazie al quale dentro i palazzi di giustizia si è costruita la filiera dei cosiddetti “magistrati coraggiosi”, una definizione che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, che di coraggio ne avevano da vendere, odiavano come la morte; ma che oggi, paradossalmente, ha finito per segnare una particolarissima casta: quella dei magistrati che oltre a essere super scortati e super coccolati da giornalisti e conduttori televisivi – dettagli che puntualmente alimentano e ingigantiscono la loro aureola di eroi in servizio permanente effettivo – vengono anche corteggiati e richiesti a gran voce dalla politica.

 

O, meglio, da quegli esponenti politici che, intruppandoli nel loro staff, credono di potere alzare davanti agli elettori un collaudato vessillo di correttezza, di trasparenza e legalità.

 

Dispiace dirlo, ma ci cascano tutti:  Matteo Renzi si è inventato Raffaele Cantone, che viene dalla lotta alla camorra, e lo ha messo a capo dell’Anticorruzione; Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, ha accolto felicemente tra le sue braccia Antonio Ingroia, seriamente disastrato dallo zero virgola ottenuto alle elezioni di due anni fa, e gli ha regalato persino un lussuoso incarico di sottogoverno; Giachetti voleva provarci con Sabella, seguendo l’esempio dell’ex sindaco Ignazio Marino, ma gli è andata male, malissimo: non solo ha perso le elezioni, asfaltato in malo modo dal plebiscito che ha portato Virginia Raggi al 67 per cento; ma le ha pure perse con il sospetto che la maledetta dichiarazione, con la quale Sabella ipotizzava addirittura un avviso di garanzia per la Raggi, colpevole sì e no di un insignificante malinteso burocratico, avesse provocato nelle ultime ore della campagna elettorale una sorta di rigetto nei confronti di un Pd, intrappolato ancora una volta nella sua logica sbirresca.

 

Teoricamente, lo zelo dimostrato nell’ ultima performance potrebbe persino scalfire l’aureola di “magistrato coraggioso” che, fin dalla stagione di Palermo vissuta nel pool antimafia di Gian Carlo Caselli, cinge la testa di Alfonso Sabella. Teoricamente però. Perché se è vero che, dopo la sortita sulla Raggi, il Consiglio superiore ha aperto un fascicolo, è altrettanto vero che la commissione disciplinare non troverà mai né la forza né il coraggio di mettere in discussione le parole e le opere di una toga che vanta nel suo curriculum il merito di avere catturato boss come Leoluca Bagarella, cognato e braccio destro di Totò Riina. Sarebbe come “delegittimare” – ecco la formula magica – la lotta alla mafia. Del resto, il Csm ha sempre mostrato su questo fronte estrema cautela: ha archiviato Ingroia che, girovagando tra i palazzi della politica in vista della sua discesa in campo, era finito sul palco del congresso Pdci, quello di Oliviero Diliberto, per sostenere che “i magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste”; e ha archiviato anche Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo, che ha pubblicamente bocciato con un quattro in pagella, i giudici che avevano assolto l’ex generale dei carabinieri Mario Mori, costretto ormai da quasi vent’anni a salire e scendere le scale del Palazzo di giustizia. Volete che non dimostri altrettanto buon animo nei confronti di Alfonso Sabella o che gli avveleni la festa per l’arrivo nelle sale del film che, ricostruendo l’arresto di Bagarella, inevitabilmente finisce per intonare un inno alla sua immagine di duro e puro, alla sua storia di cacciatore di mafiosi?
Tranquilli. Sabella, come quasi tutti i “magistrati coraggiosi”, resterà sempre una spanna sopra gli altri, sospeso a metà tra il cielo e la terra, tra la politica e la giustizia, tra la giurisdizione e la cura del potere. In quel mondo di mezzo, dolcemente tempestoso e sottilmente inquieto, che è la dimora metafisica degli uomini che, in forza del loro impegno profondo e melodioso, meritano un posto più alto di quello assegnato ai comuni mortali.

 

Ricordate la favola del Barone rampante, narrata per tutti gli uomini che ancora amano Voltaire, da un Italo Calvino straordinariamente illuminista e calvinista? Cosimo Piovasco di Rondò per sfuggire all’angheria del padre che gli impone di mangiare le lumache, decide a dodici anni di salire su un albero, dove rimane felice e gaudente per tutta la sua esistenza. Il padre tenta in tutti i modi di convincerlo a scendere, ma Cosimo non vuole sentire: “Io dagli alberi piscio più lontano”, risponde beffardo. Ed è a quel punto che il barone padre, indicando il cielo carico di nuvole,  lo avverte: “Attento, figlio, c’è Chi può pisciare su tutti noi”.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.