E' l'antimafia, bellezza
Per radere al suolo il castello di carte costruito dalla procura attorno alla fantomatica Trattativa aveva impiegato tredici secondi: un fulmine. Giusto il tempo di leggere la sentenza che mandava assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato assieme ad altri undici imputati, di avere piegato l’autorità dello Stato alle esigenze scellerate e malandrine dei boss mafiosi. E aveva avuto tanto coraggio Marina Petruzzella nel concludere il rito abbreviato di quel processo in maniera così clamorosa. Di fatto la sentenza finiva per travolgere, più che una tesi accusatoria, un monumento dell’antimafia edificato dai pubblici ministeri e fortificato giorno dopo giorno con le comparsate televisive, gli articoli sui giornali, le rassegne teatrali, le pellicole da cinematografo e le immancabili fiaccolate delle agende rosse con le quali veniva marcato il confine tra buoni e cattivi, tra trattativisti e negazionisti: un fronte agguerrito, pronto a sfregiare e a perseguitare chiunque, su quel processo, osasse avanzare un dubbio o una perplessità. Ma lei, la dottoressa Petruzzella, giudice per le indagini preliminari, non si è lasciata intimorire. E in tredici secondi ha demolito la grande architettura consegnata ai casellari giudiziari da Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto che, spinto da una incontenibile passione per la politica, voleva diventare addirittura presidente del Consiglio. Era il 4 novembre del 2015. Un giorno importante, non solo per Mannino, ma anche per gli altri imputati che, pur essendo impastoiati nei tempi sonnacchiosi della Corte d’assise, avevano comunque un motivo di speranza in più: che anche il loro processo avrebbe potuto concludersi prima o poi nel solco tracciato da Marina Petruzzella, cioè con una assoluzione.
Ma riusciranno mai a concludersi questi processi? La domanda nasce dal fatto che, dopo un anno di approfondita meditazione e di opportune riflessioni, la dottoressa Petruzzella – proprio lei, il giudice dei tredici secondi – non ha ancora depositato le motivazioni che l’hanno spinta ad assolvere Mannino. Non è un dettaglio da poco: primo, perché i motivi di una sentenza si scrivono abitualmente entro i novanta giorni; secondo, perché se il giudice non spiega le ragioni della sua scelta si preclude sia all’accusa che alla difesa la possibilità di presentare appello.
Certo, l’ex ministro democristiano non ha alcun interesse ad avviare un processo di secondo grado: arrestato dal procuratore Gian Carlo Caselli nel febbraio del 1994 e detenuto per nove mesi nel carcere di Rebibbia, sarà ricordato come l’uomo che ha vissuto la gogna più lunga. I magistrati lo hanno tenuto impalato all’accusa di concorso esterno fino al 2008 quando la Cassazione ha stabilito definitivamente che con la mafia non c’entrava nulla. Ma sono puntualmente tornati ad affliggerlo quattro anni dopo, nel 2012, quando i pm della Trattativa, con in testa Ingroia, hanno deciso di impiccarlo nuovamente alla corda del sospetto e della complicità. Se il giudice Petruzzella avesse voluto riconoscere l’oltraggio di un calvario senza fine inflitto a Mannino dalla procura di Palermo, avrebbe dovuto accelerare al massimo il deposito delle motivazioni, unica strada per consentirgli di chiudere in tempi ragionevoli, sia in un eventuale appello che in Cassazione, la propria vicenda.
Invece ha invertito di colpo i suoi ritmi e, a un anno dalla sentenza, non è stata ancora in grado di produrre il documento senza il quale un processo non può andare né avanti né indietro.
Che cosa le è successo? Marina Petruzzella non è giudice che possa prestare il fianco a ipotesi maliziose. Ha fama di persona puntigliosa e sin troppo rigorosa. Il ritardo, pertanto, potrebbe anche ricondursi a un sovraccarico di impegni – nel frattempo è diventata giudice di una sezione penale del Tribunale – o alla evidente difficoltà di mettere a punto i riferimenti ai tanti, tantissimi documenti che i pm hanno gettato nel calderone di questo mastodontico processo. Tutto è possibile, anche la necessità di masticare e rimasticare le ragioni di una sentenza destinata a influire su quella che dovrà essere emessa prima o poi dalla Corte d’assise che, sotto la presidenza di Alfredo Montalto, continua a processare da oltre tre anni e mezzo gli undici imputati che, a differenza dell’ex ministro democristiano, hanno scelto il rito ordinario.
Tutto è possibile, si diceva. Ma una cosa è certa: se malauguratamente la sentenza Mannino dovesse ottenere l’imprimatur della Cassazione prima che si concluda il maxiprocesso in corso nell’aula bunker dell’Ucciardone, per i rappresentanti dell’accusa sarebbe una disfatta. Da qui l’esigenza, per loro, di leggere le motivazioni della Petruzzella, di presentare appello e di rinviare il più possibile il verdetto della Cassazione. Una conferma, da parte dei supremi giudici, della sentenza Mannino significherebbe la morte certa del processo celebrato in Corte d’assise. E sarebbe uno smacco non solo per Ingroia e i pubblici ministeri che sostengono in dibattimento le ragioni dell’inchiesta, ma anche per quel mondo, a onor del vero sempre più angusto e malinconico, che attorno alla Trattativa, ha costruito un’antimafia a misura delle proprie certezze, delle proprie verità, del proprio fanatismo.
Il ritardo accumulato fin qui dalla Petruzzella rappresenta già un balsamo per questa particolarissima confraternita di zelanti giustizieri: perché intanto la notte si sposta di un anno più in là. Parallelamente, come è ovvio, si sposta di un anno anche la gogna di Mannino, ma chi se ne frega: per avere giustizia ha già aspettato ventidue anni, potrà anche arrivare a venticinque. E’ l’antimafia, bellezza.
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