Magistrati che non sanno perdere
Il caso Mannino e le amnesie costituzionali di Di Matteo & Co.
E pensare che fino a qualche giorno fa erano tutti lì, a dibattere di diritti e Costituzione, a denunciare le arroganze e lo strapotere delle forze politiche, a contrastare il cinismo di chi voleva comunque modificare le regole del gioco. Erano tutti lì, dal procuratore generale Roberto Scarpinato all’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia fino a Nino Di Matteo, il pubblico ministero del processo sulla trattativa tra lo Stato e i sanguinari boss di Cosa nostra. Ma ieri, conclusa l’esaltante fase referendaria, sono tutti tornati all’ordinaria amministrazione della giustizia. E come primo atto ecco l’appello – firmato da Di Matteo e dagli altri tre pm del mastodontico processo – contro l’assoluzione di Calogero Mannino decisa nel novembre dell’anno scorso da Marina Petruzzella, giudice del rito abbreviato. Un appello legittimo, per carità, e certamente rispettoso della sacralità dei codici. Ma come convincere Mannino e i suoi più stretti familiari che, dietro questo appello, c’è anche e soprattutto un potere giudiziario che non accetta la propria sconfitta? Come convincere gli amici e i nemici di Mannino che la Costituzione italiana parla di “giusto processo” da celebrare e concludere in tempi ragionevoli e non di un martirio senza speranza e di una gogna senza fine?
Sono ventidue anni che la magistratura perseguita l’ex ministro democristiano. Ad aprire le danze era stato il procuratore Gian Carlo Caselli che, nel febbraio del 1994, aveva spedito Mannino nel carcere di Rebibbia con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Mannino, dopo sedici anni e quattro processi, ne uscì indenne ma il rito palermitano, per sopravvivere anche a se stesso, subito dopo tirò fuori il romanzo della Trattativa – un romanzo di grandi sonorità mediatiche – e l’ex uomo politico si ritrovò nuovamente impigliato nella grande trappola giudiziaria. La procura, rappresentata in quel momento da un Antonio Ingroia già pronto per scendere sullo sfavillante terreno della politica, gli contestava di essere stato addirittura tra i registi e gli ispiratori della Trattativa: dopo le stragi mafiose del ’92, sosteneva il procuratore aggiunto, l’onorevole Mannino temeva di essere ucciso e per scongiurare tale grave pericolo si adoperò perché i più autorevoli rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine stringessero un patto scellerato con Totò Riina, Bernardo Provenzano e tutti gli altri malacarne della filiera corleonese. Un teorema e nulla più. Che il giudice Petruzzella ha fatto letteralmente a pezzi con una sentenza che oltre a stabilire la completa estraneità di Mannino ai fatti contestati, censura con una pesantezza inaudita atti e comportamenti dei pubblici ministeri durante la raccolta delle cosiddette prove. A cominciare dagli interrogatori di Giovanni Brusca, il carnefice della strage di Capaci oggi pentito, e di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo al quale, nei mesi roventi delle mattanze, si sarebbero rivolti gli ufficiali dei carabinieri per tentare di capire come contrastare la furia assassina dei boss. Le frasi scritte, nelle motivazioni, da Marina Petruzzella denunciano un metodo di indagine a dir poco discutibile. Le interpretazioni di Brusca, ad esempio, sarebbero state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogatori, a volte molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”. Nonostante “la confusione dei suoi ricordi e l’innegabile e ingiustificata progressione delle sue accuse” Brusca, che è un pentito per tutte le stagioni, “mostra di avere, sulle situazioni di cui riferisce, delle conoscenze frammentarie e limitate”. Eppure, sottolinea la dottoressa Petruzzella, il collaboratore ha finito per essere considerato da Ingroia “il depositario di verità non rivelate”. Dal bluff Brusca al bluff Ciancimino.
Il figlio di Don Vito, “accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia”, ha popolato i suoi racconti di misteri e fantasmi. Tuttavia – e qui le parole della Petruzzella diventano pietre – “salta agli occhi la sua forte suggestionabilità, con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai pm, frammista a una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”. Se non si corresse il rischio di precipitare in un’acida ironia, si potrebbe anche dire che la mastodontica inchiesta sulla Trattativa, dalla quale Ingroia ha tratto una tale popolarità da presentarsi sicuro e baldanzoso alle elezioni politiche del 2013, sia nata in realtà da una surrettizia e inconffessabile trattativa tra chi conduceva le indagini e due personaggi di certo poco raccomandabili: da un lato Brusca, il cui interesse è stato ed è sempre quello di mantenere il comodo status di pentito nonostante sia tornato più volte a mafiare; dall’altro lato Massimo Ciancimino, il cui interesse era ed è quello di salvare il malloppo lasciato in eredità dal padre e di salvare se stesso dal processo per calunnia che gli ha intentato Gianni Di Gennaro, l’ex capo della polizia che il figlio di Don Vito voleva mascariare contraffacendo con la fotocopiatrice un documento forse del padre. Tutta roba da vedere e da verificare, comunque.
L’unica certezza fino ad oggi è che contro l’assoluzione di Mannino c’è l’appello sottoscritto da Nino Di Matteo e dagli altri pm che, da tre anni e mezzo, seguono nell’aula bunker dell’Ucciardone il processo ai dieci imputati che, a differenza di Mannino, hanno scelto il rito ordinario e non quello abbreviato. Proprio perché resta ancora in piedi il filone principale – la sentenza, se tutto va bene, dovrebbe arrivare entro il dicembre del 2017 – la procura non aveva via di fuga: l’appello si doveva fare. E si farà. Resta tuttavia aperto un problema: potranno essere inghiottite dal silenzio (dall’omertà, si stava per dire) le sconvolgenti annotazioni della Petruzzella su come sono state condotte le indagini sulla fantomatica Trattativa? I magistrati che ieri hanno sottoscritto l’appello sono di sicuro persone serie e responsabili, al di sopra di ogni sospetto. Certamente avranno letto e analizzato ogni rigo delle 520 pagine che spiegano per quali ragioni è stato assolto Mannino. E, leggendo rigo dopo rigo, avranno di sicuro sottolineato i dubbi e i sospetti sollevati dal giudice Petruzzella. Per carità, tra le prerogative assegnate all’ordine giudiziario c’è anche quella del possibile errore. Ma qui, stando alle carte della dottoressa Petruzzella, l’errore potrebbe anche essere stato costruito ad arte, con tenacia e perseveranza.
Fare finta di niente, sarebbe il più grande sfregio a quella santissima Costituzione che Di Matteo, così come gli altri magistrati che lo affiancano, ha difeso fino alle estreme conseguenze. La Carta, chiamiamola confidenzialmente così, parla di “giusto processo” e dice pure che non si può amministrare giustizia solo perseguendo le colpe degli imputati e mai quelle di chi avrebbe mal condotto un’indagine o di chi avrebbe cercato di forzare un interrogatorio o di chi avrebbe assegnato brillantezza e autenticità a testimoni che avevano invece tutta l’opacità dell’inganno e dell’interesse privato. I pubblici ministeri, rispondendo alla Petruzzella, scrivono nei motivi di appello che l’assoluzione di Mannino sembra “percorsa da un singolare furore persecutorio”. Poi parlano di una argomentazione “costruita in modo confuso” e dedicano soltanto una timida difesa alle contestazioni che il giudice del rito abbreviato ha rivolto ai metodi adottati da Ingroia, o da chi per lui, nella fase lunga e complicata delle indagini.
Ingroia, dopo lo zero virgola ottenuto alle politiche del 2013, ha abbandonato, come si ricorderà, la magistratura e ha trovato riparo in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal fraternissimo amico Rosario Crocetta, governatore della Sicilia. Comprensibilissimo quindi l’imbarazzo della procura palermitana nel chiamarlo in causa e la conseguente volontà di non rimestare l’acqua nel mortaio: meglio una parola in meno che una parola in più. Solo che, per seguire fino in fondo la Costituzione, e quindi il principio di una giustizia giusta, probabilmente non basta avere fatto campagna per il No al referendum. Forse servirebbe uno scatto in avanti, senza il quale proprio quelli che amano definirsi magistrati coraggiosi finirebbero per somigliare a Luis Rincón de Páramo, un arcidiacono venuto da Toledo che fu inquisitore della Sicilia dal 1586 e autore di un “De origine Inquisitionis”, dato alle stampe nel 1598, che un secolo e mezzo dopo fu molto apprezzato da Voltaire. “Questo Páramo”, si legge nel Dictionnaire “era un uomo semplice, esattissimo nelle date, che non ometteva nessun fatto interessante e calcolava col massimo scrupolo il numero delle vittime umane che il Santo Uffizio aveva immolato in tutti i paesi. Del resto tutti gli uomini rassomigliano a Páramo, quando sono fanatici”.