L'odio dei presentabili
Non solo Sicilia. Come il giochino dell’impresentabilità è diventato il vaso di pandora dell’insulto libero
Diciamolo pure con un certo sconforto, ma diciamolo: l’antimafia, quella che un tempo spaccava le ossa e garantiva trionfi e carriere, non tira più. E per averne conferma basta guardare tra le pieghe delle elezioni siciliane. Rosario Crocetta, che cinque anni fa era diventato governatore grazie alle sue furbesche intemerate contro gli invisibili spettri di criminalità e malaffare, è finito nella polvere con tutto l’armamentario delle imposture spacciate come verità nel teatrino di Massimo Giletti. Leoluca Orlando, altro campione dell’antimafia chiodata, ha tentano il salto dal comune di Palermo alla Regione, ma le sue liste non hanno superato la soglia di sbarramento e sono miseramente naufragate, come quelle di Angelino Alfano, nel grande mare dell’irrilevanza. Stesso destino per Claudio Fava, che pure è testimone di un impegno serio e rispettabile: la sua fatica con quel che resta della sinistra non è andata oltre il 6 per cento voti e ha conquistato appena due seggi a Sala d’Ercole.
La disfatta, com’era prevedibile, ha travolto anche le comparse del vecchio cinema antimafia, con tutti i loro attrezzi di scena. Valeria Grasso – un’improbabile eroina del cerchio magico di Crocetta, elevata dal ministero dell’Interno al ruolo di testimone di giustizia – ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento di salire sul palcoscenico elettorale per riscuotere gli applausi. E per meglio commuovere gli spettatori ha raccontato la storiellina, ovviamente “misteriosa e inquietante”, di un furto in casa. Un furto “strano”, va da sé. Un’esperienza “traumatica e brutale”, naturalmente, proprio perché i ladri si sarebbero limitati, guarda un po’, a rubare la foto di Valeria ritratta con i figli. E nulla più.
La storiellina, finita sui giornali a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto quantomeno suscitare consensi e solidarietà, trepidi abbracci e infiocchettati attestati di stima. Ma le masse, chiamiamole ancora così, non hanno risposto all’appello e Valeria Grasso ha raccolto nelle urne appena 501 voti. Gli elettori hanno mostrato verso la sua antimafia la più assoluta e sincera indifferenza. Si è schiantato contro un muro di gomma anche la sublime architettura messa in piedi per condizionare il voto dalla cosiddetta Confraternita della Trattativa, una sorta di setta conventicolare secondo la quale nessun magistrato, tranne Nino Di Matteo, riuscirà mai a vedere le trame oscure e i mandanti occulti che lo Stato-mafia (col trattatino piccolo piccolo) puntualmente nasconde tra le pieghe di ogni processo. La Confraternita, alla quale aderiscono santoni e tromboni con tutte le stimmate delle loro immacolate esistenze, ha tentato il colpo grosso. Da cinque mesi vagavano – tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta – i mille e mille discorsi fatti durante l’ora d’aria da Giuseppe Graviano, un boss stragista rinchiuso da 23 anni nel carcere duro di Ascoli Piceno.
Graviano, che pure aveva sgamato di avere tutto intorno le cimici sistemate dagli agenti lungo il cortile per intercettare le sue parole, parla a ruota libera e, con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, lascia andare alcune frasi smozzicate che comunque tirano in ballo il bersaglio di sempre: Silvio Berlusconi.
Una manna dal cielo per la Confraternita della Trattativa, e per i pochi cronisti che ancora si ostinano a seguire il processo che si celebra nell’aula bunker dell’Ucciardone. E anche se il boss, chiamato dalla Corte a testimoniare, spegne subito gli entusiasmi, avvalendosi della facoltà di non rispondere, la Confraternita che affianca dall’esterno Di Matteo (candidato da Grillo a diventare il ministro di legge e ordine in un futuro governo a cinque stelle) non si arrende e spara il colpo di riserva: l’annuncio che Berlusconi, con Graviano, è stato iscritto a Firenze nel registro degli indagati. La notizia, anche se vecchia e usurata, doveva restare segreta. Ma la Confraternita ha i suoi incappucciati sparsi un po’ in tutti i sottoscala delle procure. E la notizia è stata opportunamente veicolata, si dice così, sui due principali quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. Teoricamente, avrebbe dovuto fare sfracelli. Ma le elezioni siciliane hanno ratificato anche il fallimento di quella particolare specie di antimafia che, giocando di sponda con i magistrati politicamente più sensibili e più disponibili, si è trasformata da tempo in una autonoma forza sbirresca. L’elettorato, messo di fronte all’ennesima scempiaggine, non ha abboccato. La criminalizzazione di Berlusconi non ha funzionato. Anzi, a giudicare da come sono andate le cose, c’è da pensare che la manovra degli incappucciati abbia portato al centrodestra più consensi che dissensi, più simpatie che antipatie. Ciò non significa tuttavia che il tracollo dei professionisti dell’antimafia abbia restituito alla politica, soprattutto a quella siciliana, la cultura della libertà e dello stato di diritto. No. Perché morta un’antimafia se ne fa un’altra. E per rendersene conto basta guardare alla scomposta – forsennata, si stava per dire – campagna condotta dal Movimento cinque stelle contro i cosiddetti “impresentabili”: una categoria molto vaga di impuri sui quali si sono scatenati in quest’ultimo mese i puri e duri di Beppe Grillo.
Giancarlo Cancelleri, che nella corsa alla presidenza della Regione ha raccolto oltre il 34 per cento dei voti, non ha accettato la vittoria di Nello Musumeci e ha platealmente respinto l’invito a stringergli la mano: “La sua elezione si deve agli impresentabili di cui erano piene le liste di centrodestra”, ha sentenziato. E mascariando e sputtanando, ha cominciato a criminalizzare non solo il figlio di Francantonio Genovese, che fu ras a Messina prima del Pd e poi di Forza Italia e che ha sulle spalle una condanna di primo grado a 11 anni di carcere per avere abbondantemente lucrato sui corsi di formazione della Regione; ma anche i candidati che malauguratamente si ritrovano un indagato tra gli ascendenti o i discendenti, tra i nonni o gli zii, tra i parenti vicini o i parenti lontani. Certo, uno scheletro negli armadi può capitare a chiunque: ieri, a ventiquattr’ore dall’elezione, è finito in carcere per evasione fiscale Cateno De Luca, un guitto della politica reclutato dall’Udc di Lorenzo Cesa ma la scuola grillina pretende che l’impresentabile appartenga sempre e comunque alla sponda opposta. Perché se finisce sotto indagine un esponente del Movimento, come è successo al sindaco di Bagheria o ai deputati rinviati a giudizio per le firme false, la macchia giudiziaria diventa un semplice incidente di percorso al quale ovviare, se proprio se ne avverte il bisogno, con una semplice autosospensione. La questione degli impresentabili è diventata dunque non solo la nuova bandiera di moralisti e moralizzatori. Ma anche e soprattutto il nuovo strumento di lotta politica che il M5s impugna o per delegittimare l’avversario, esattamente come avveniva con l’antimafia, o per sfuggire al dibattito in particolar modo quando il dibattito pone la necessità di approntare risposte concrete a domande che non si possono più eludere o rinviare. Sarà pure un caso, ma la scatola con dentro il giochino dell’impresentabilità è stata regalata ai grillini proprio dalla Commissione parlamentare antimafia che, non avendo più alte indagini da fare per mantenersi a galla, promette a ogni vigilia elettorale di rivelare urbi et orbi chi sono gli impresentabili veri o presunti nascosti dentro le liste. Poi puntualmente non ci riesce e l’operetta immorale diventa automaticamente patrimonio esclusivo di chiunque voglia fare politica con gli insulti, di chiunque pensi di annientare il nemico con uno sfregio e con una diffamazione, di chiunque voglia tenere ancora viva in questo paese la devastante cultura del sospetto. “Il sospetto è l’anticamera della verità”, teorizzava trenta e passa anni fa Leoluca Orlando, ancora sindaco di Palermo, quando spadroneggiava tra i circoli antimafia con una arroganza che lo spingeva a insultare un giudice come Giovanni Falcone o uno scrittore come Leonardo Sciascia. Oggi la sua stella si è appannata e la sua antimafia non brilla più. S’avanzano i nuovi odiatori: da Cancelleri a Gigino Di Maio, da Alessandro Di Battista al poco conosciuto Angelo Parisi che, appena designato da Cancelleri tra gli assessori dell’immaginario governo grillino, si è guadagnato gli onori, si fa per dire, della cronaca lanciando la nobile proposta di mandare al rogo Ettore Rosato, il capogruppo del Pd colpevole di avere proposto la legge elettorale poi approvata dai due rami del Parlamento. Ebbene, diciamolo pure con un pizzico di cinismo, ma diciamolo: meglio che la Sicilia sia finita nelle mani dell’onesto Nello Musumeci, anche se eletto con i voti di Cateno De Luca e di altri tre o quattro candidati impresentabili, che non in quelle di Cancelleri e dei suoi professionisti del rancore. Abbiamo visto i guai e le nefandezze dell’antimafia forcaiola, che Dio ci liberi dai guai e dalle nefandezze dei santissimi sputtanatori.