Foto LaPresse

Per capire il reddito di cittadinanza guardate il disastro dei Pip in Sicilia

Giuseppe Sottile

Un popolo di quasi tremila siciliani da quasi vent’anni si trascina da un ufficio all’altro in cerca di un lavoro ma intanto vive e sopravvive con un sussidio di oltre 800 euro al mese

Ci sono i picciotti e i picciottazzi, i padri di famiglia e i figli di puttana. Ci sono i disoccupati e gli svantaggiati, gli intrallazzisti e i pagnottisti, gli onestissimi lavoratori e gli ex detenuti. E’ l’esercito dei Pip: un popolo di quasi tremila siciliani che da quasi vent’anni si trascina da un ufficio all’altro in cerca di un lavoro ma intanto vive e sopravvive con un sussidio di oltre 800 euro al mese – altro che reddito di cittadinanza – puntualmente pagato dalla regione. Sono i figli dell’emergenza Palermo, la formula trovata alla fine degli anni Novanta da quell’antenato del populismo che fu Leoluca Orlando, il più professionista dei professionisti dell’antimafia. Lo ricorderete di sicuro: con il ciuffo sudaticcio perennemente appiccicato sulla fronte, il sindaco della cosiddetta “primavera palermitana”, radunava le folle e le clientele per avviare “una stagione di riscatto contro la sopraffazione mafiosa”. Aveva programmi vasti e ambiziosi, simili a quelli decantati oggi da Salvini e Di Maio. 

 

E in nome del popolo prometteva “lavoro e dignità” per tutti coloro che le precedenti amministrazioni, evidentemente colluse col potere dei boss, avevano colpevolmente e arrogantemente ignorato. C’era, nelle sue predicazioni, una mistica della miseria; una sorta di culto per gli ultimi: per i disoccupati, per gli emarginati, per gli immigrati, per i carcerati; per chiunque, insomma, chiedesse un tetto sotto il quale dormire o un salario con il quale tirare a campare. Quale Europa, quale governo nazionale, quale giunta regionale avrebbe potuto mai negare al sindaco, che in quel momento incarnava la lotta della società civile contro la mafia, un provvedimento capace di sanare le ferite dell’infelicissima Palermo? Quale ministro o quale governatore avrebbe mai avuto il coraggio di ignorare quel popolo derelitto che, secondo il Conducator, avrebbe rappresentato l’unica trincea contro lo strapotere di Cosa nostra, contro la casta dei politici corrotti, contro la violenza sanguinaria di Totò Riina e di tutti i boss che avevano disseminato terrore e morte lungo le strade di Palermo?

 

Il sì ai cantieri e ai “lavoratori socialmente utili” di Palermo arrivò puntualmente. I beneficiari furono assunti in massa, senza concorso, col trucchetto delle cooperative di servizio. E quando i cantieri furono ultimati e i piccioli dissipati, ecco apparire i Pip, sigla ruffiana e fascinosa quasi quanto lo è oggi il reddito di cittadinanza. Letteralmente erano “Piani di inserimento professionale”; e come il reddito di cittadinanza avrebbero dovuto facilitare, in un arco di tempo ben definito, l’incontro fatidico e risolutivo tra un disoccupato e il mondo del lavoro. Sembrava la soluzione a tutti i mali del mondo, l’antidoto perfetto per tutte le angherie di Palermo, il rimedio sociale contro ogni ingiustizia. Ma gli imprenditori privati, i pochi che ancora non erano stati fagocitati dalla globalizzazione e dalla concorrenza dei cinesi, si tennero adeguatamente lontani dalle agevolazioni che Bruxelles diceva di volere elargire in cambio dell’assunzione di un picciotto in cerca di occupazione o di un detenuto che, appena fuori dal carcere, trovava tutte le porte inesorabilmente chiuse. E allora il comune di Palermo, sempre attento alle ragioni del popolo, propone alla Comunità europea di trasformare l’impiego in uno stage, anche nella Pubblica amministrazione. E poiché c’era urgenza di spendere entro il 31 dicembre i dieci miliardi di lire messi a disposizione da Bruxelles e ancora fermi in tesoreria, l’allegra e disinvolta amministrazione populista allargò la platea degli aventi diritto da 1.240 alla sorprendente cifra di 2.480 candidati: tutti reclutati – senza concorso, va da sé – tra le 23 mila domande pervenute, come una valanga, negli uffici di Palazzo delle Aquile.

 

Non siamo ancora alla politica del divano, ma poco ci manca. La comoda soluzione si materializza nei primissimi anni del nuovo secolo quando, esauriti senza successo i progetti dei cantieri socialmente utili e i finanziamenti europei per i fantomatici piani di inserimento professionale, si ritrovano sulla piazza della protesta oltre tremila lavoratori. Chiamati, in blocco, “ex Pip”. In soccorso dei quali arriva, manco a dirlo, la giunta regionale presieduta da Totò Cuffaro, campione di baci e di clientele. A Palazzo dei Normanni passa una legge, anzi una “leggina”, che crea con capitale pubblico la Società per l’Occupazione, comunemente detta Spo, che stanzia 36 milioni di euro all’anno e che prevede l’assunzione di tutto quel vasto popolo dei precari, 3.460 persone, che Orlando aveva magistralmente messo “a carico” dello stato, dell’Europa e, quindi, della regione. Quel popolo, grazie alla leggina di Cuffaro, se ne starà buono e quieto dentro la Spo, dove ciascuno avrà diritto alle ferie, alla tredicesima, all’assistenza. Anche se non lavora. Perché passa il principio secondo il quale se un disoccupato non trova da lavorare la colpa non è sua, “ma del lavoro che non c’è”. E’ questa la voce – a volte drammatica e sacrosanta, a volte farlocca e truffaldina – che si leva abitualmente dai divani di tutti coloro hanno trovato un sussidio anziché un impiego.

 

L’ufficializzazione del “salario di stato” per gli ex Pip avviene nel 2010, quando Cuffaro è già finito in carcere per favoreggiamento della mafia e al suo posto regna Raffaele Lombardo, un fanatico dell’autonomia e del sovranismo della Sicilia. In quell’anno la regione è costretta a stringere la cinghia. L’economia è in affanno e la cassa è impoverita. Gli ex Pip però sono molto agguerriti e, temendo il peggio, cingono di assedio sia Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale, sia Palazzo d’Orléans, dove troneggia Lombardo con la sua giunta di governo. Chiedono garanzie. Chiedono l’assunzione definitiva nei ranghi della Pubblica amministrazione. C’è però un ostacolo: per entrare nei ranghi della regione o dei comuni è necessario un concorso pubblico; servirebbe una qualifica, il riconoscimento ufficiale di un ruolo, di una funzione. Cose che gli ex Pip non hanno. Dove trovare una via di uscita?

 

Il governo autonomista di Lombardo cede alla piazza che lo assedia. E per conquistare le clientele che avevano fatto la fortuna politica di Cuffaro, costituisce una seconda società partecipata – altro consiglio di amministrazione, altri posti di sottogoverno da spartire – che di fatto contrattualizza 3.056 precari, assegnando loro un sussidio di 850 euro al mese per 14 mensilità. Il carrozzone allestito da Lombardo si chiama, con una pennellata di inglese e un tocco di autonomia, Social Trinacria. E sembra fatta apposta per garantire agli ex Pip il paradiso promesso quindici anni prima da Leoluca Orlando. Ma la politica, si sa, è una brutta bestia. E quando Lombardo finisce pure lui, come Cuffaro, nel girone infernale di una cavillosa inchiesta per mafia il suo successore, Rosario Crocetta, crede che l’unica via di salvezza sia quella di iscriversi alla suprema loggia dei professionisti dell’antimafia e di impugnare la spada del moralismo spiccio e, soprattutto, televisivo. Crede nell’onestà, con l’ardore di neofita grillino. Ma crede soprattutto nel populismo di Massimo Giletti, che a domeniche alterne lo ospita a “L’Arena”. Ed è da lì che parte la campagna contro gli ex Pip, diventati all’improvviso fannulloni, imbroglioni, fonte inesauribile di sprechi e privilegi. Ma soprattutto, proprio così, “covo insospettabile di delinquenza e lavoro nero”. La spada di fuoco agitata da Crocetta è impietosa, affilata, tagliente. Racconta a Giletti di avere scoperto oltre quattrocento ex Pip con la fedina penale macchiata da gravi reati contro il patrimonio, alcuni anche di stampo mafioso. Un mondo opaco e non più sostenibile, secondo il nuovo presidente della regione: non solo ci ritrovi ladri e rapinatori, ma anche gente che con una mano riscuote gli 850 euro erogati dalla Social Trinacria e con l’altra si fa tutti i lavori che gli capitano davanti, ovviamente in nero.

 

Sembra la fine della favola. Crocetta – e siamo già nel 2014 – sospende i finanziamenti, cancella tredicesime e quattordicesime e lascia il sussidio secco; poi avvia i prepensionamenti e all’un tempo decide di licenziare i quattrocento e passa che alla prima verifica erano stati colti, è il caso di dire, con le mani nel sacco. Dimentica però che un Pip è per sempre. Molti di quelli che Crocetta ha licenziato hanno vinto infatti il ricorso e sono stati ricollocati a carico della regione. I giudici del lavoro hanno avuto gioco facile nello spiegare l’obbligo del reinserimento: se li avete assunti come ex detenuti come potevate sperare che fossero degli incensurati?

 

L’ultimo caso di cronaca è quello di Antonino Adelfio, un picciottazzo di Ciaculli che chiunque avrà potuto notare alla testa dei tanti cortei inscenati dagli ex Pip quando c’era da chiedere il rifinanziamento della legge nata per sostenerli. Ufficialmente lavorava, si fa per dire, in appoggio al prete della chiesa di San Giuseppe Cafasso, a Palermo; perché la fiction del sussidio prevedeva anche questo. In realtà aveva approntato un laboratorio sotterraneo dove si incapricciava a costruire modernissime armi per la mafia. Lo hanno arrestato. Ma qualche anno più in là, quando sarà scarcerato, avrà immancabilmente la qualifica di ex detenuto. E in quanto tale potrà fare valere il diritto al reinserimento. E’ la legge del Pip, bellezza. Altro che reddito di cittadinanza. Grillo e Di Maio non hanno inventato proprio nulla.

Di più su questi argomenti:
  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.