Tra padri e figli
Jeb Bush, cos’ha in testa? Shakespeare, naturalmente, ma anche Sofocle. Pensa che vi sia un destino cui non si può sottrarre, come pensavano i favolosi Kennedy, morti impallinati e a loro volta rovinosi per acqua e aria. Pensa che dall’altra parte della fiume elettorale c’è Hillary, la moglie di colui che sconfisse suo padre. Pensa che a un certo momento, nel pieno della battaglia, avrà la rivelazione della sua identità: fallirà la missione o porterà a compimento la trasfigurazione trinitaria dei Bush?
Jeb Bush, un volto accattivante e pacioso, mai avrebbe pensato d’intraprendere un percorso così arduo; di più, doloroso. Ma nessuno, scrive Sofocle al termine della trilogia edipica, deve essere sicuro d’aver vissuto una vita beata prima d’avere messo il piede nella fossa. Ecco l’inciampo di Jeb: al pari del re Laio sulla strada di Tebe, Jeb incontra il figlio Edipo nelle vesti di Marco Rubio, il ragazzo che egli stesso ha alzato agli onori della politica e che ora pretende, come Edipo, che il vecchio gli lasci il passo. Unica differenza, non da poco: Edipo non sapeva che Laio fosse suo padre, Marco Rubio sì, e alza la spada a ragion veduta. Alto si leva il lamento di Jeb: “Come hai potuto Marco figlio mio? Ti ho elevato ai massimi ranghi, si trattava solo di aspettare un po’, intanto ti avrei preso come mio vice. Perché questa infernale fretta che costringe i nostri comuni elettori a scatenarci e a scatenarsi l’uno contro l’altro in un fatale duello; a meno che io non rinunci, come un impotente, un vecchio arnese, per passare il resto dei miei giorni a ricordare lo smacco e la pena d’avere perso un figlio, un traditore vissuto alla mia corte e vinto dall’avidità. Memento Marco Rubio: sarai punito come fu punito Edipo, diverrai re ma il tuo regno sarà funesto, non si uccide un padre invano, pagherai anche tu”.
Queste parole e chissà che altro nelle sue notti insonni Jeb grida a un bicchiere di whisky, tra il conforto degli amici che maledicono il traditore, il giovane, il bel Rubio che nel tratto, nel volto e nel portamento ricorda il suo omonimo Rubirosa, predatore di ricchissime ereditiere che lo votarono a presidente del loro cuore e del loro corpo e gli concessero il potere e i soldi in barba ai padri morti o morituri. Cinico era Rubirosa, cinico Rubio. Non spende una lacrima sul cadavere del suo padre adottivo, sa che la sua virilità è ben più forte di quella di Jeb, il bravo ragazzo Jeb invecchiato senza accorgersene. E’ il tipico candidato che fa dire all’elettore: ‘Jeb? Perché no?’; ma in contemporanea: ‘Perché si?’. Ben altro Marco Rubio, nonostante che politica-mente lui e l’altro appaiano essere la stessa cosa, conservatori moderati con un tocco liberal. Ma la politica mente sempre, per l’appunto, quel che davvero conta è la materia di cui ciascuno è fatto: Rubio è l’opposto di Jeb, il buon re Duncan; Rubio è Macbeth e ha fretta. Sa che un giorno lo spettro insanguinato di Jeb gli apparirà al famoso banchetto, Marco avrà già la risposta pronta: “Scusami caro, sa quanto ti voglio bene, ma se lasciavo fare a te a quest’ora saremmo invasi dai mongoli”.
Vent’anni d’amore?
Nella canzone dell’immortale Fred Buscaglione, Porfirio Rubirosa faceva il manovale alla Viscosa; altrettanto umili le origini di Marco Rubio, sono il suo punto di forza: “Io vivo in un paese eccezionale dove anche il figlio di un barista e di una cameriera possono avere gli stessi sogni e lo stesso futuro di quelli che vengono da famiglie potenti e privilegiate”. Bravissimo, ruffianissimo. Ma in quei vent’anni d’amore, cosa davvero è accaduto? Il figlio del barista e della cameriera fuggiti da Cuba ha in tutto quel tempo covato un fiero odio nei confronti del suo ricchissimo protettore? O Rubio ha amato davvero Jeb, ma a un certo punto ha dovuto a malincuore abbandonarlo per amore di quella Patria alla cui conduzione sente il suo mentore inadeguato?
Comunque sia, guerra tra padre e figlio, fino all’ultimo respiro politico. Jeb, Marco, stessa pasta politica, stessi obiettivi, ma soprattutto un legame di sangue, sangue che sarà versato copiosamente finché uno dei due vincerà le primarie. Allora tutti a votarlo, com’è giusto che sia, senza rimpianti perché chi vince è il migliore. Io dico Porfirio Rubio; non perderò occasione di pronosticargli la doppia vittoria. Sono un padre, e in quanto tale amo i parricidi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano