Quello che non

Umberto Silva
C’è chi lasciò il Pci per i carri armati di Budapest, e chi lascia il Pd per paura della rottamazione

    La nobiltà della sconfitta” titola Ivan Morris un suo splendido libro; ma ancor prima, con folgoranti esempi, ne parla Sigmund Freud in “Coloro che soccombono al successo”: vi sono uomini che quando lo raggiungono gli si sottraggono, a perversa espiazione – come tutte le espiazioni – di antichi delitti. Sacerdoti del funebre rito, vegliano affinché tutti lo rispettino. Matteo Renzi ha stravinto fottendo il re dei fottitori, il Cavaliere; Renzi deve morire. Che insista a vivere ostentando una mostruosa baldanza, risulta intollerabile agli amanti del cilicio. “Vieni tra noi”, lo supplicano, “tra le ombre; ascoltaci, bevi il sacro veleno”. Il giovane condottiero proprio non vuole crepare e i rimbrotti salgono al cielo, “è peggio di Berlusconi, guardate che faccia da godurioso che ha!”. Strepiti e minacce ma dei tanti spiaggiati alla fin fine dal Pd si è tolto solo lui, Pippo Civati; è difficile lasciare un partito che fu il Partito comunista italiano. Cosa ha convinto Civati? Lo spettro della dittatura, la cui prova sovrana sarebbe che Renzi manco gli ha telefonato, come il Pippo si lamenta a ogni intervista? Tanti anni fa dal partito se ne andarono Giolitti, Calvino, Vittorini e altri, in seguito alla repressione della rivolta ungherese: c’era tanto sangue nelle strade di Budapest, il barlume di democrazia era calpestato dai carri armati; ma ora? Ora suona piuttosto ridicolo imputare Matteo Renzi di pretese dittatoriali, anche se il Cavalier Burlone ci prova suscitando il riso, il suo per primo: suvvia, credergli è davvero insultarlo. No, i Gulag sono lontani, altro è lo spettro che ha spinto Civati ad andarsene, la Rottamazione, che va pazza per le ossa delle vecchie glorie ma non disdegna i giovani ambiziosi. Il suo incedere androide fa paura a Pippo Civati; l’idea di una vita da rottamato all’interno del Pd deve essergli risultata alquanto spaventosa, mentre gli altri, quelli della vecchia guardia, vivacchiano facendo i pensionati, con le loro patetiche cattiverie da bar che attirano ulteriori sberle del Rottamatore, sberle da cui scaturiscono eroiche lamentazioni: “Il partito non lo si lascia, si soffre ma si resta!”. Sciocchezze, bugie, comodità, pensioni, il partito lo si lascia eccome se se si hanno le palle, tutto si lascia; Orson Welles lasciò Rita Hayworth, l’ esplosiva ‘atomica’ per una ‘scialba moretta’, come lui stesso mascalzoneggiando definì la nuova moglie.

     

    Pippo Civati se n’è ghiuto, lo tengono per mano coraggiose passionarie di dannunziana memoria: morirà con le armi in pugno, nella luce del tramonto come si addice a un’anima romantica. Boschi e Madia, che non batterono ciglio, si scioglieranno in lacrime: “Stupido, stupido amore”. La sua fermezza intanto ha avuto l’onore del present’arm da parte di amici e nemici, corteggio di cui fornisco un veridico spaccato avvalendomi dell’insegnamento di Sigmund Freud contenuto nel memorabile saggio sulla sconfessione, da cui risulta che il non – sì, lui, non – uno degli avverbi più in voga presso gli umani, è anche il più mendace. Togliete il non e avrete la verità, dice Freud; il non è solo copertura, là dove il non è più calcato più mente, spesso all’insaputa del parlante. Lo stesso Civati apre la parata cadendo nella trappola quando dice: “Non volevo fare questo disastro nel bel mezzo della campagna elettorale, la colpa non è mia”; togliamo il non e la frase suona: “Ho voluto fare questo disastro nel bel mezzo della campagna elettorale, la colpa è mia”; dichiarazione assai più ardita, degna di un uomo con le palle. E ancora: “Non cito Enrico Letta per amor di patria”; e sì che lo citi Enrico Letta, caro Pippo, e proprio mentre lo stai negando. Ti fa amara eco l’amico Speranza: “L’addio di Civati è un atto che di deve far riflettere e non è liquidabile con una scrollata di spalle”; Freud traduce: “L’addio di Civati? Liquidato”. Possibile che nessuno dica qualcosa di secco senza trincerarsi dietro il fatale non, qualcosa del tipo: ‘Bravo!”, o “Scemo!”, o “Andiamo al ristorante”? No, tutti abbarbicati al non, anche Rosy Bindi: “La scelta di Pippo Civati è un fatto politico che non può essere minimizzato”; togliamo il non e ce lo ritroviamo polverizzato. Dario Ginefra del Pd vincente, sospira: “Non può far piacere l’uscita da un partito di qualsivoglia iscritto, figuriamoci di una persona con le qualità di Pippo”; sì, figuriamocelo proprio, sai che piacere. “Raramente siamo stati d’accordo, ma se Civati se ne va non è una bella cosa né per lui né per il Pd”; conclude Orfini. D’accordo non è bella la cosa, è bellissima.
    Bello è anche sentirsi fuori, solo, nudo di contro al cielo vuoto e senza dei.