Filosofo lupesco

Umberto Silva
Lo sdegno virile di Cacciari mi commuove. Le sue opere chissà, i suoi improperu vivranno eterni

    Il ritorno a sé, il sich-erinnern, è il ri-velarsi della stessa trascendenza che grida nell’anima” ci informa Cacciari nel suo libro ‘L’Arcipelago’, la cui preziosa scrittura è solo di poco inferiore alla virile frase che il filosofo ha pubblicamente pronunciato qualche anno dopo: “I capi del Pd sono delle teste di cazzo”. E la Santanchè? “E’ la dimostrazione che non siamo una civiltà superiore”. E così via, in un cacciariano profluvio di filosofica sapienza mista a televisive tenzoni. Le ardite commistioni tra sacro e profano sono tipiche dei nobili veneziani capaci, nei secoli, di raffinatissime elucubrazioni mischiate a imprecazioni da stallieri. Il Cacciari che perde la bussola negli squallidi show televisivi e furente si accanisce per conquistare l’ultima parola ricorda Machiavelli che gioca ai dadi con gli osti e i carrettieri mentre scrive “Il Principe”. “Ci vogliono cose reali, basta chiacchiere!”, urla il Nostro, come se le sue chiacchiere potessero scamparla dal bituminoso oceano dei media. “Capra!” gli fa eco Vittorio Sgarbi, un altro audace che mischia improperi e cultura. “Capra, capra!”. Be’, che dire? Una bestemmia anch’io; confesso: lo sdegno virile di Cacciari, il suo sprezzo, mi commuove, così come il furore sgarbiano mi riempie di gioia. Le loro opere chissà, ma certo le loro imprecazioni vivranno in eterno.

     

    Nutriti da salubri invettive i libri di Cacciari acquistano un corpo; mai mi avventurerei nelle sue sapienziali pagine se non fossi attratto dalla prospettiva di una misteriosa iracondia. “Le ton c’est tout”, ripeteva il sommo Cioran, che al pensiero preferiva quel lamento così prossimo alla musica, sua unica musa. Le ton, oui, mais le visage aussi: mai avrei letto le seicento pagine di “Dell’Inizio” se non pensassi d’essere scrutato dagli occhi lupeschi del suo autore, annidato in un’oscura boscaglia di barba e capelli. Se Cacciari avesse la faccia di Severino non mi sognerei di decifrarne l’enigmatico disegno, così come non mi avventuro nei deliri di Severino proprio perché ha la faccia che ha, bella, riposata, civile: il Pensatore. Francis Scott Fitzgerald si ubriacava notte e dì, e quante parolacce e sciocchezze gli uscivano di bocca e quali scoppi d’ira: questa visione mi permette di leggere il malinconico “Grande Gatsby” due o tre volte l’anno.

     

    Infaticabile, Cacciari passa le notti sulle eroiche pagine della “Phänomenologie des Geistes” e in contemporanea capta le fregnacce dei parlamentari. Ne è affascinato al punto di devolvere parte del suo prezioso tempo a bastonarli, vantandosi di avere speso un anno nel tentativo di convincere Felice Casson, suo amico e onesta persona tiene a precisare e noi gli crediamo, preoccupati vagheggiando cosa mai avrebbe fatto all’Infelice se fosse stato un suo nemico. Già ora ci è dato immaginare Cacciari che lo rincorre urlandogli “sei brutto, sei vecchio, mettiti da parte coglione”. E il povero Casson che cerca di difendersi, con la faccia tutta rossa di chi si sforza di convincersi delle proprie buone ragioni. In fondo una ne avrebbe, quella di essere stato in extremis fregato proprio dall’amico Massimo nelle convulse elezioni di dieci anni fa. Ma tutt’altro che pentito Cacciari non gli dà tregua: ‘Sei vecchio – lo sento dire - e sei anche brutto con quella faccia e il corpo da pinguino; io almeno ero affascinante e ancora lo sono’.

     

    Suicidio del Pd e omidicio di Casson

     

    Anche nella recente sconfitta di Casson una responsabilità Cacciari se l’è guadagnata. Il munifico filosofo strepita di suicidio del Pd e d’imbecillità dei capi ma dovrebbe parlare anche di omicidio, il suo, il secondo sulla pelle del povero amico. A furia d’inseguire Casson per i vicoli di Dorsoduro e di urlargli dal campanile di San Marco fin lungo la Riva degli Schiavoni la notte appostato sul ponte dell’Accademia, l’ha intristito e spennato come un tacchino, i suoi fan a loro volta si sono depressi, e il povero Felice alla fine aveva solo voglia di piangere e di perdere, e come un tacchino è andato a morire.

     

    Se ne sbatte il lupesco filosofo che ha ben altro cui pensare: “ Se Un-grund non può propriamente concepirsi come Wesen des Grundes…”.