Che crudeltà

Umberto Silva
La blasfema poetica dello Stato islamico e l’esibizione così antica che ne fanno i tagliagole

    Raffaele La Capria mi chiede di psicanalizzare il fenomeno della crudeltà, e non posso ritrarmi davanti alla richiesta dell’uomo più mite del mondo. In particolare lo colpisce l’esibizione che alcuni fanno della propria crudeltà, vedi l’Isis, e il nascondimento che altri cercano di operare, ad esempio i nazisti che occultarono e negarono le camere a gas. Costoro avevano ancora qualcosa da perdere; quelli dell’Isis invece, pronti a farsi kamikaze, essi stessi oggetti della propria crudeltà, non hanno nulla da perdere all’infuori della vita, che evidentemente non stimano molto, anzi niente. Sgozzare ragazzi in tivù o farli esplodere davanti a tutto il mondo regala loro un piacere superiore che si fa beffe di ogni minaccia e punizione. Tanto più che il piacere di uccidere si potenzia col mostrarlo agli amici e parenti delle vittime, procurando a esse un atroce dolore di cui ulteriormente compiacersi. Nell’antichità questo modo di godere era frequente, pensiamo ai romani che cavalcavano fieri le strade tappezzate di schiavi crocefissi, ma in questo caso era un godimento triste, tanti uomini efficienti tolti a Roma, alcuni rimpianti, senonché l’Impero doveva punire in modo esemplare. Diverso il caso delle donne stuprate dai barbari – ma anche dai cristiani – nei saccheggi, davanti ai loro cari che poi saranno sgozzati e così via. Gli umani hanno sempre tratto grande piacere non tanto nell’uccidere quanto dal torturare e scannare davanti agli impotenti genitori e figli. E’ il colmo della crudeltà, quella che annega ogni speranza e precipita in un lago di orrore. I genitori non possono soccorrere i figli, assistono al loro sfacelo, non possono neppure dare la vita per essi poiché non ne hanno più il possesso, a loro volta sono condannati, se presenti, allo stesso destino dei figli, se assenti a una lenta disperata agonia nella casa che li vide famiglia. I figli li invocano e improvvisamente ne scoprono l’impotenza, perfino la lingua che potrebbe dare l’estremo saluto è premurosamente tagliata dagli aguzzini. Prontissimi in questi giorni a rivendicare l’aerea morte di tanti bambini nei cieli egiziani, che non ci si accontenti di un incidente, che si sappia di come li si è coscientemente mandati in pezzi, e ci si ricordi le lugubri facce degli assassini e i loro ghigni soddisfatti.

     

    Con le sue fucilazioni di massa e i tagli di gola nel deserto l’Isis tenta di crearsi una blasfema poetica. Il sangue sgorga, annaspano gli occhi e la lingua, il pene del sadico si erige. La furia non trova più barriera in un glorioso desiderio e cede alla voglia di morte che solletica un’infantile onnipotenza: cosa di meglio del prendere a calci un cranio che fino a pochi minuti prima aveva ragionato, amato, pregato? Se non si è in grado di godere facendo del bene, si godrà del male. Sensi di colpa? Pochissimi, e a un certo punto nessuno più: incallendo, il delinquente diventa alieno da ogni tormento di una coscienza totalmente asservita, di un inconscio blindato. Eppure sul volto dei martiri sgozzati nel deserto ho letto una mite fermezza quale avevo adorato nella radiosa serenità degli scritti dell’eccelso Daniello Bartoli sul martirio dei gesuiti e dei loro fedeli in Giappone. Ecco il rogo di Ignazio : “Avea il fanciullo capegli lunghi due palme, e come uso cosà, legati da piè quasi sul colmo del capo, onde gli ricadevano sulle spalle, sporgendosi come un pennacchio. Or fosse che il laccio che li univa si disciogliesse, o che lo sventolare dell’aria e delle fiamme li trasportasse, tre, o quattro volte gli si riversarono sopra il volto; ed egli, con una mirabile tranquillità, altrettante se li tornò a gittar dietro, acciocché non gli togliessero la veduta del cielo.”

     

    I popoli civili piangono la morte

     

    L’idea di una generale riprovazione fa ulteriormente godere gli scellerati, che assaporano una volta di più l’impunità e ridono del ridicolo furore degli indignati pigri. Invitano gli americani alla lotta sul terreno, li spronano a un’orgia grandiosa, un’immensa dark room dove fottersi a colpi di bazooka. Occorre una prudenza che non sia viltà ma una maggiore forza. Se si gettassero a corpo morto nella tenzone gli americani diverrebbero a loro volta crudeli e autolesionisti, in tal modo aderendo alla sordida necroteologia dei nemici, decretandone così la vittoria. Ebrei e americani ben conoscono questa trappola e sottrarvisi è il loro impegno e vanto; fino ad ora ci sono riusciti: guerra ai barbari, subito, ma con discernimento; guerra violenta ma senza crudeltà. Israeliani e americani hanno per lo più rispettato questo codice d’onore e umanità; le singole cadute nella crudeltà sono state punite. Se i popoli barbari godono nel dare la morte e nell’infliggersela, i popoli civili la propria e altrui morte piangono.