Le cicliste di Eros
Molti musulmani – tra questi Ali Abu Shwaima, presidente del Centro islamico di Milano – considerano sconveniente che le donne girino in bicicletta. Gli occidentali s’indignano per tanta pruderie, ma la questione è complessa e va indagata senza pregiudizi. Che la bicicletta sia uno strumento di lavoro e di svago indispensabile per uomini e donne, è evidente; che possa diventare una maliziosa fonte di eros, è comprovato. Tuttavia non sempre, ahimè, Eros trionfa; quotidianamente assistiamo allo sciamare di ragazze e giovani donne che pedalano in maschi pantaloni, e questo è davvero disdicevole. Altrettanto deplorevole la sfacciataggine dei pantaloncini corti e dei bikini che popolano le spiagge d’estate: il Sole e il mare, nella loro funzione terapeutica, legittimano la nudità togliendole sapore, tranne che per disgraziate fameliche bocche. Le cicliste di Eros sono altre, e pedalano con le gonne al ginocchio in eleganti città i cui palazzi fanno da scenografia; in quei venerati luoghi le mutande non hanno a che fare con il mare e il Sole ma con la tenebra; al riparo di vestiti e cappotti a loro volta esse celano il sacro pube, ne sono le guardiane e spesso fanno capolino, folgoranti apparizioni che permettono loro di riconquistare quel primato sessuale che oggi è attribuito al plebeo sedere. Le mutande attraggono perché hanno a che fare con quanto di più intimo. Non tanto il pube quanto il sogno, l’annuncio di qualcosa che misterioso lavora; bianca o colorata che sia, bianca ancor meglio, ma anche colorata, nera va benissimo, un lembo di mutanda intravisto al volo per una frazione di secondo è segno di una casta audacia adolescenziale, universitaria, coniugale, che eccita l’uomo assai più di un corpo volonterosamente strofinato con olio di mandorla e scrutato e palpeggiato per un intero afoso meriggio. Lontane dall’offerta del mare e del sole, della camera da letto e della discoteca, sono mutande rubate quelle in bicicletta, rubate a una santità che vorremmo smascherare, invitando le donne a una sana e quindi miserabile complicità: “Ma dai cocca, lo sappiamo entrambi, tu mostri e io guardo”. Ci procuriamo in tal modo la più sprezzante delle occhiatacce, e solo quando saranno passate oltre le ragazze si abbandoneranno a un superiore sorrisino o a una trionfale risata, la cui eco ci straccia le vesti di dosso.
Perché, amici musulmani, rifiutare questi magici momenti? Beh, un motivo c’è. Passino le mutande delle altre, ma come sopportare che quelle delle nostre donne vadano in pasto all’altrui ingordigia? Non è un cruccio dei soli musulmani, anche evoluti italici se vedono la loro ragazza arrivare in bicicletta con la gonna al vento si seccano e possono esplodere in violente scenate. Insomma, gelosi lo siamo un po’ anche noi. E viziosetti: sapere che la nostra donna svolazza fiera per la città offrendosi agli occhi di altri può suscitarci un perverso piacerino, che naturalmente mai ammetteremo. D’altro canto loro, le donne, che adorabili bugiarde! La più emancipata sbuffa: “Professore, senta, voi uomini manco vi vedo quando giro in bici, e comunque me ne frego, io sono libera di fare quel cazzo che mi pare!”. Certo, ma anch’io sono libero di non crederti, carina, di scorgere nel tuo eroico impeto qualcosa di più di una rivendicazione. Proprio ai mariti e agli amanti distratti è dedicata questa esibizione, che sappiano che altri uomini le desiderano eccome, uomini dei quali apprezzano e condividono il rapace sguardo, Diane cacciatrici che illuminano le maschie cupe giornate con maliziosi dardi scagliati in corsa. E quell’altra, deliziosa bugiarda: “Giuro che non lo faccio apposta, professore. Quando inforco la bici non sto troppo a pensarci, ma forse lui, l’inconscio, pensa per me. Capita così che mi dimentichi di metterle quelle benedette mutande…”. Sì, certo signorina, lei dimentica.
E i musulmani che bucano le gomme delle biciclette sono colpevoli o innocenti? Colpevoli, di proibire e proibirsi un sì dolce peccato.
Il Foglio sportivo - in corpore sano