Il mito di Pound
Mary de Rachelwiltz, raffinata quasi centenaria poetessa figliola dell’iperaffinato e misterico padre Ezra Pound, inorridì quando le parlarono di CasaPound, e sconfessò ogni parentela con i suoi adepti. Pare che nei loro proclami la nobile dama non vedesse il cosmico oceano in cui sguazzava il grande Ezra, anzi, ne ravvisasse una brutale negazione. Quando ci s’investe di una successione di cui non si è all’altezza, ci si riduce alla scimmiottatura di colui che si è elevato a proprio Dio, e allora sono guai. Tanto più che delle scimmie il poeta non aveva un buon ricordo, essendo stato nell’immediato Dopoguerra catturato e rinchiuso in un più che angusto carcere che chiamava “gabbia da gorilla”. Si proclamava ancora fascista, ma era il suo un fascismo romantico, in cui univa la poesia all’economia, di cui dava una versione delirante né più né meno di quelle in voga oggidì, con in più la fissa di aiutare i poveri e i deboli. Aveva lasciato gli amici di Parigi, Brancusi, Braque, Picasso, Joyce, per la radiosa Rapallo, e per radio si sorbiva fiotti di giovinezze primavere di bellezze e nere faccette e all’armi fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompe; per disintossicarsi giocava a tennis. Era innamorato dell’antichità, del sole, degli dei, di quelle cose che possono anche rimbecillire se prese a forti dosi, come ci ammonisce La Rochefoucauld: “Né il sole né la morte si possono guardare fissamente”; e Pound le fissava tutto il giorno e tutta la notte.
L’amico che Pound più avrebbe dovuto tenersi stretto era Hemingway, che gli insegnò a boxare onde sfogarsi. Gli avrà dato da leggere “Addio alle armi”, probabilmente Pound non l’avrà letto, sicuramente non l’ha onorato. Peccato, avrebbe appreso la terribilità e insensatezza di certe guerre. “Addio alle armi”, invece, è stato letto, immagino più volte, da Elisabetta Rasy, che grazie al suo ardente romanzo “Le regole del fuoco”, nell’inferno delle trincee ha trovato l’amore di due crocerossine che pur dedicandosi ai moribondi non hanno alcuna voglia di morire, nemmeno tra le braccia di Rock Hudson nel film di Franz Borzage. Strette una all’altra nelle gelide notti, giustamente le due fanciulle pensano di avere dato molto ai poveri combattenti sfracellati da inique volontà, e voluttà, di potenza, e che ora è il momento di pensare un po’ a se stesse. Il libro di Rasy audacemente scompagina il culto della bella morte, mostrandone la perversione profonda, e anche il modo di andare oltre, nella poesia e nell’amore.
I ragazzi di CasaPound scendono in strada, sfilano, fanno opere di bene, ambiscono a diventare senatori, e risistemare l’Italia e un mucchio di altre belle cose; eppure basta un nonnulla a dire che tutto ciò è falso, basta ascoltare certe loro brutali canzonette, basta l’ostentazione di quel cazzo ritto e tagliente che è il saluto romano a rivelare che siamo alle solite, alla celebrazione della bella morte, quale s’inaugurò con la Prima guerra mondiale, 700.000 ragazzi traditi, uccisi, e due milioni di storpiati. E ora, nelle ricorrenze, esaltarli, celebrarli? Piangerli, baciarli, questo sì, figli strappati alla vita. Primo e secondo macello fecero a gara, di assassinii e deliri, tutti sappiamo quanto Pound e Céline abbiano delirato, così come vent’anni prima i giovanotti che Freud vedeva abbandonare euforici le fidanzate per inabissarsi nelle montagne fatali. All’angelico Rilke e alle deliziose sartine preferirono la morte, in quattro e quattr’otto buttarono nel cesso la grandiosa Belle Epoque con un furore tale che manco l’Isis. Solo i contadini sardi e abruzzesi e siciliani si chiedevano che diavolo stesse accadendo, quale malocchio fosse in corso, per quale oscura colpa dovevano crepare; gli altri, gli intellettuali interventisti e i generali, pareva avessero tutti idee chiarissime; erano oscure e infere. E’ abietto negazionismo disconoscere che dal 1938 il Duce e con lui il fascismo mutarono natura, diventando nazismo con tutto quel che comportò di persecuzione di ebrei e di italiani, 500.000 morti per imitare Hitler, per compiacerlo, poi per servirlo, poi per tenerlo buono, poi per paura, poi… Ricordiamoci sempre di La Rochefoucauld, di quanto sia fatale troppo fissare il sole e la morte.
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