La bella morte
In attesa di capire se c’è un Dio che c’aspetta, conviene scegliersi la fine che più ci va a genio
Si fa un gran parlare di eutanasie e suicidi, e tanti sono i modi per morire, tocca solo scegliere quelli che più ci aggradano. Fanciulli, abbiamo letto e immaginato infinite morti, alcune assai eccitanti, come quella dei tigrotti di Mompracem che per seguire il loro Sandokan si facevano schiacciare la testa dagli elefanti dei re. Poi, a un certo momento, tocca anche a noi morire, morire davvero, più o meno, perché non si sa che fine faremo, magari c’è davvero un Dio che ha bisogno delle nostre follie anche lassù, e allora non si può neppure chiamarla morte ma trapasso o roba del genere. Intanto però chiamiamola morte, ed è il caso che ciascuno se ne scelga una che gli va a genio, essendo costei già abbastanza stronza per conto suo, la morte.
Personalmente – qui tutto è personale – la morte più desiderabile è quella in chiesa, come spesso ho predicato, una bella chiesa dei tempi che furono, poiché quelle attuali non danno alcuna speranza di resurrezione. Fino a tarda notte ci si nasconde nell’antico confessionale carico di peccati e assoluzioni e all’alba eccoci inginocchiati davanti all’altare; diciamo un po’ di preghiere e zacchete, grazie a un bell’Hawk Black Micarta ci si offre a Dio, che ci accoglierà ridendo, ben lungi da quel mostro di cattiveria che dai tempi dei tempi tutti dicono Egli sia. Ci strizzerà l’occhio, come noi davanti alle smanie di Heinrich von Kleist, che s’affannò a cercare una signora per spararsi insieme; dopo molti rifiuti la trovò, l’Henriette, sicché il Wannsee potesse gioirne. Grande Kleist, persino Goethe tremava al suo cospetto. Tuttavia Goethe ci presenta notturni sublimi, ed è impossibile resistere alla tentazione di passeggiare su un prato di genziane, purgando in meravigliosa solitudine la nostra vita che, per sbilenca che sia, le stelle contempleranno. All’alba, sdraiati sulla terra, scavando con i denti, le chiederemo di riprenderci nel suo grembo; assaporeremo l’acqua delle radici. In fatto di morte, i fiumi e i mari sono pressoché imbattibili. Consiglio il volo da un dirupo, dal torrente in piena facendoci trascinare chissà dove; per il mare raccomando vivamente una crociera con una vivace danzatrice spagnola conosciuta il giorno prima. La notte del ritorno la bacerai sulla fronte e silenzioso uscirai sul ponte. Che meraviglia quel cielo, quelle stelle, quel caldo così promettente. Dopo aver fumato l’ultima sigaretta ti tufferai nell’oceano; ringrazierai lo squalo, lo squalo ti ringrazierà.
Sconsiglio l’impiccagione, incerta nei suoi esiti da Arte Povera; il suo apparire spaventa tutti, ma in un modo decisamente inferiore a quello che ci si aspetta. Mi dispiace che la divina Cvetaeva si sia ridotta alla corda, il morso di un lupo l’avrebbe onorata. La pastiglia resta una pastiglia, Damien Hirst ne fa noiosa collezione. Più chic Steve McQueen che, morente, compostamente salì sulla sua ultima automobile. Mustang? Porsche? Fece il giro di qualche isolato e rientrò in ospedale per sprofondare nell’azzurro dei propri occhi. Ai mistici si addice la morte per digiuno, da non confondere con la misera anoressia. Per niente anoressico un mio prozio che una notte si rinchiuse in un salone del palazzo sparando ai servitori che cercavano di entrarci. Morì dopo tre giorni, mio padre mi raccontò che uno di loro prese a calci il cadavere. Strepitosa la morte di Empedocle d’Agrigento che quando fu presso il cratere sciolse con cura il sandalo e si tuffò nell’Etna. Che non si voglia seguire il suo esempio, castiga la razza umana in modo totale. Catherine Millot, l’ultima giovanissima amante di Jacques Lacan, voleva convincere il Maestro a buttarsi insieme da qualche parte, o temeva che lui volesse buttarla, non ricordo bene. Henry de Montherlant, il geniale autore di “Le ragazze da marito” scrisse, prima di gasarsi ovviamente: “Se ammiro il coraggio di coloro che si suicidano, ammiro anche il coraggio di coloro che per quindici secoli – secoli del cristianesimo – hanno sopportato tutto, perfino le cose più atroci, senza suicidarsi. Il coraggio di morire e di non morire”. A tradurle, sottolineò Tommaso Landolfi, le poesie di Puskin sono penose, ma nella versione di Giovanni Giudici l’Onieghin, lui solo, risulta stupendo. Di Puskin amo il duello, la nobile sortita del sangue quando non si riesce più a inzuppare la penna. Quarant’anni fa a Londra una donna mi supplicò di uccidermi con lei; le chiesi se aveva da darmi cinquantamila sterline. La faccenda si complicò e non è il caso che qui ne parli.
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