Barack Obama (foto LaPresse)

Obama l'Imperatore

Umberto Silva

Si siede sul mio lettino, la sua voce è bassa, la sua eleganza senza tempo. Ma ha perso

I trionfi milanesi e la dolce Toscana non bastano a calmare Barack Obama, e nemmeno possono fare miracoli i saporiti cibi di Massimo Bottura, lo chef che tutto il mondo c’invidia, così come non lo distraggono il golf e le passeggiate in bicicletta. E probabilmente non bastano neppure le clamorose sbadataggini di Trump, il presidente più sgangherato della Terra, al punto che persino Kim Jong-un riesce a farsene beffa. C’è qualcosa d’altro in quell’uomo misterioso e fatale, bello, nero e pensieroso, qualcosa che da qualche tempo cerco d’individuare. Eccolo. Entrato nel mio studio, mi stringe freddamente la mano guardandomi come guarderebbe chiunque altro, un pitone, il ministro della Sanità, il manubrio di una bicicletta. Anche oggi mi si presenta un Obama nervoso, come ieri e come sempre, il paziente più nervoso che io abbia mai avuto nella mia lunga storia. Ho visto e sentito e percepito di tutto ma lui è diverso, non è di questa epoca, Obama è nervoso come lo si era negli anni Cinquanta, quando la signora si vestiva per il ballo e la cameriera zittiva i bambini: “Ssst, vostra madre è molto nervosa”. Oggi la parola ‘nervosa’ è quasi scomparsa, vanno di moda aggettivi più alla mano come irrequieto, teso, irritabile, suscettibile, collerico, nevrastenico, isterico e, naturalmente, stressato. Ma per me Obama resta un uomo nervoso; lo noto da come sta in piedi guardandosi attorno scrutando la finestra e i miei libri, da come mi porge la mano, consapevole che qualunque mano lui possa stringere, quella dell’amico o del nemico, dell’arabo o dell’ebreo, nulla accadrà: tutto in lui è rimandato a un futuro che pare non avere futuro. E il presente è quel che è, lo vedo da come in punta di piedi si siede sul bordo del divano e lo accarezza a lungo, pensieroso, e solo dopo un po’, guardandomi appena e scrollandosi le spalle, si concede il lusso di sdraiarsi.

 

Per mezz’ora Obama parla a voce bassissima, una voce molto bella a dire il vero, profonda e acuta al contempo, con interminabili pause che paiono rimangiare tutto quel che ha detto. Cosa ha detto non mi è stato molto chiaro, rapito com’ero dalla sua necessità di dirlo ma anche di tacerlo, di sentirlo ma anche di dimenticarlo. Sul mio taccuino ho segnato parole come war, void, solitude, adumbration, parole di un presidente del mondo, di uno che forse ora è ancora più presidente di prima, per via di quel nulla che lo accompagna. Non riesco a staccare lo sguardo dal tacco delle sue scarpe che ombreggiano sotto la chaise-longue; quando le muove, dalla punta. Mi affascinano, è tanto che non vedo circolare persone davvero eleganti, e di questo gli sono profondamente grato. Un po’ ovunque nel mondo, insieme al sublime nervosismo è scomparsa anche l’eleganza, l’altera divinità che vestiva le donne e gli uomini dell’Alta Società negli anni Trenta e Cinquanta, dediti alle Turmac Bleu e allo Sherry. Eleganza e nervoso sono inscindibili, patetico pensarsi eleganti e sereni, l’eleganza è contraria a tutto ciò, essa vuole che di lei non si possa mai davvero gioire; esserne fieri sì, ma gioire… Barack Obama è un uomo estremamente elegante, vale a dire infelice. Sul suo volto emaciato, sul complessato torace, i briganti dell’Isis sfacciatamente galoppano.

 

Sono le sei del mattino e mi risveglio dal mio sogno di onnipotenza. Il primo pensiero che porto con me sono gli otto anni di Obama Imperatore; tanti e ne ha fatti un modesto uso. Poiché poca cosa è il mio sapere, tra un dolcetto toscano e del buon vino mi auguro che Barack Obama dica a Nostro Signore, o a Lui chieda, il perché. Sarebbe molto interessante sentirlo, ancor più dalla sua bella voce che dai suoi annunciati libri.

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