55 miliardi di euro. Ecco quanto costa non rispettare la legislazione ambientale europea
Lo sostiene un recente rapporto della Commissione Europea, e il valore sarebbe di gran lunga superiore se si conteggiasse l’intera esternalità, commenta Enzo Di Giulio
Il problema dei gap tra obiettivi dichiarati e andamento reale dell’inquinamento non è, purtroppo, qualcosa che affligge solo la questione climatica. Un recente rapporto della Commissione Europea – “The costs of not implementing EU environmental law” – mostra come gap siano presenti in numerosi altri domini ambientali, dall’inquinamento dell’aria a quello dell’acqua, dalle sostanze chimiche alla biodiversità, dai rifiuti alle emissioni industriali.
Il report si caratterizza per abbondanza di dati offrendo, per ciascuno degli ambiti oggetto delle politiche ambientali dell’Unione Europea, la dimensione dello scostamento tra obiettivi ed emissioni effettive, come pure il loro valore monetario.
Nella tabella sottostante si mostrano i valori principali relativi alla monetizzazione dei diversi gap, espressi in miliardi di euro.
In totale, il valore centrale della stima è di circa 55 miliardi di euro all’anno, valore che conferma quello di un precedente studio europeo del 2011, che perveniva ad un danno intorno ai 50 miliardi annui.
Non rispettare la legislazione ambientale europea distrugge valore per 55 miliardi di euro, pari al 3% del PIL italiano
In altri termini, il non rispetto della legislazione ambientale distrugge valore per un ammontare considerevole, pari – qualora si volesse assumere un termine di paragone noto – a circa il 3% del Pil italiano.
Questo danno è principalmente il risultato di violazioni dei limiti di legge della qualità dell’aria e dell’acqua, corpi recettori che congiuntamente spiegano circa il 62% del danno complessivo.
Qualità dell’aria e dell’acqua sono i limiti più violati, e non si considera l’eccesso di rumore che da solo comporterebbe un danno da 31 miliardi di euro
È importante sottolineare come il rapporto non includa il costo derivante dall’eccesso di rumore, a ragione dell’assenza di limiti specifici nella legislazione europea. Qualora si prendesse come riferimento i limiti di rumore indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, si perverrebbe ad un danno monetario pari a circa 31 miliardi di euro, valore che porta il danno complessivo al 5% del PIL italiano.
In termini del PIL europeo si tratta di oltre mezzo punto percentuale, valore considerevole se si pensa che la previsione di crescita dell’Unione Europea per il 2019 è pari all’1,5%: in altri termini, un terzo della crescita è vanificato dal danno ambientale conseguente al non rispetto della legge.
Si badi bene che qui non si sta parlando del danno ambientale che è comunque presente, anche quando i limiti di legge sono rispettati, ma solo di quella parte di esternalità che si manifesta perché lo standard imposto dalla legge non è rispettato. In altri termini, se si conteggiasse l’intera esternalità, il valore sarebbe di gran lunga superiore.
Se si conteggiasse l’intera esternalità, il valore sarebbe di gran lunga superiore
Si può pensare che tale distruzione di valore sia fittizia poiché invisibile e intangibile, qualora si cerchi di metterla a fuoco attraverso le lenti distorte della contabilità nazionale ufficiale. Purtroppo, la realtà è ben diversa: la lettura del rapporto della Commissione trasforma il danno in qualcosa di assolutamente visibile che si chiama malattia, cancro, disturbi cardiovascolari, mortalità.
Certo, il passaggio dall’inquinante al danno fisico, infine alla sua monetizzazione, è questione complessa sulla quale, peraltro, il mondo della ricerca sembra investire meno rispetto al passato: si pensi alla vastità di un progetto, mai più replicato, quale ExternE – External Costs of Energy.
Tuttavia il report, come si è visto, propone un range di valori, e il totale dei 55 miliardi di euro si riferisce al valore centrale: ciò significa che, se da una parte il danno potrebbe essere stato sovrastimato, dall’altra è anche possibile il contrario, ovvero che il danno complessivo possa superare i 110 miliardi di Euro (6,5% del PIL italiano!).
Purtroppo il rapporto non fornisce il dato relativo al contributo di ciascuno Stato Membro al danno totale. Esso propone, comunque, per specifici inquinanti, approfondimenti a livello dei singoli paesi.
Di grande interesse è, ad esempio, la tabella che mostra le percentuali di popolazione urbana esposta a inquinanti dell’aria con livelli di concentrazione superiori a quelli prescritti dalla legislazione europea.
Qui l’Italia si caratterizza per un primato che sarebbe stato bene evitare, con valori assolutamente superiori a quelli medi europei: PM2,5, 26% contro il 7% europeo; PM10, 60% contro 19%; ozono, 80% contro 30%; biossido di azoto, 35% contro 9%.
Nonostante i progressi fatti nella protezione ambientale dagli anni ’70 in poi, ancora molto resta da fare
In sintesi, nonostante i progressi fatti nella protezione ambientale dagli anni ’70 in poi, ancora molto resta da fare. Nuovi, più stringenti target, entreranno in vigore a partire dal 2020, abbassando ad esempio il target di concentrazione di un inquinante insidioso quale le polveri fini (PM2,5) del 22% entro il 2029 e del 49% dopo il 2030.
Tutto ciò è positivo e tuttavia rimane un’ombra che rappresenta il cuore stesso dello studio della Commissione: l’enforcement è ancora fiacco. Al di là della legge serve il suo rispetto, oltre le direttive c’è la loro effettiva attuazione nella vita reale.
L'articolo è di Enzo Di Giulio, economista, preside della Scuola Enrico Mattei di Eni Corporate University e membro del Comitato Scientifico di «Energia». Le opinioni espresse non vanno ascritte all’azienda nella quale lavora. L'articolo è stato pubblicato originariamente su www.rivistaenergia.it