Intellettuali e impegno. Perché (e come) è importante che le élites si facciano sentire
Il ruolo dei “public moralist” non è contrapposto al popolo, ma serve per suscitare “ragionevoli speranze”
Professor Cassese, parliamo dell’impegno degli intellettuali, partendo proprio da lei, che negli ultimi tempi, specialmente dall’inizio del 2018, è stato molto presente nello spazio pubblico, nonostante le sue molte avvertenze sulla tentazione della “mosca cocchiera” e sui pericoli che corre il “grillo parlante”. Anzi, lei ha ricordato che, ai primordi della televisione nel Regno Unito, la Bbc aveva un noto standard, per cui non bisognava mostrare la regina più di una volta a settimana, per non “consumarne” l’immagine.
Grazie del paragone alla regina d’Inghilterra. Parliamone pure, se lei crede che interessi. Le elenco i motivi dell’impegno. Primo: scrivere su quotidiani o parlare alla radio o in televisione è una continuazione dell’attività di insegnamento, un modo di parlare a un pubblico più vasto di quello studentesco. Secondo: abbiamo sempre lamentato la scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali da parte del largo pubblico, anche a causa della scarsa presenza dei problemi istituzionali nello spazio pubblico. Poi, di recente viene lamentata la “morte della competenza” (è il titolo di un libro americano di Tom Nichols, di recente tradotto in italiano). E’ frequentemente segnalata l’assenza di cultura civica. I giuristi, come studiosi, sono spettatori, ma non debbono essere silenti. Terzo: i giuristi – la categoria alla quale appartengo – sono tanto attenti commentatori di sentenze, mentre prestano tanta poca attenzione agli eventi istituzionali, che non sono meno importanti delle sentenze. Qui c’è chiusura disciplinare e incapacità di uscire dalle pratiche tradizionali, per iniziarne nuove. Quarto: fa parte della tradizione italiana il ruolo dei professori universitari come “public intellectuals” o “public moralists” (pensi solo a Francesco Saverio Nitti, a Gaetano Salvemini, a Vilfredo Pareto, a Luigi Einaudi). Proprio quando si contrappone – sbagliando – popolo a élite, occorre che i membri della élite si facciano sentire, e non per restare prigionieri della contrapposizione, ma per mostrare di essere capaci di interpretare la società in cui vivono (e, quindi, il popolo). Quinto: occorre reagire all’esaurimento dell’attitudine al dialogo, dovuto alla crisi dei partiti e alla possibilità illimitata di tutti di esprimersi attraverso il web.
Mi ha convinto. E’ bene esprimersi in pubblico. Ma per dire che cosa?
Domanda più difficile. Provo a rispondere. In primo luogo, per far capire un metodo, in un mondo e in un’epoca di fretta e precipitazione, il metodo della riflessione, che costringe a soppesare le ragioni degli altri. Poi, per comparare, far vedere i problemi in una scala mondiale, se possibile, o almeno europea. Le ripeterò l’osservazione di Tocqueville, che le ho riassunto altre volte: “Non capirà mai nulla della Rivoluzione francese chi studi solo la Rivoluzione francese” (infatti Tocqueville, per capirla, scrisse “De la démocratie en Amérique”). Terzo: per far capire che la storia conta, noi siamo anche la nostra storia, la storia è parte importante del presente e l’idea di far piazza pulita è un’illusione (per citare ancora Tocqueville, lui, per comprendere la rivoluzione, studiò e scrisse “L’Ancien régime et la révolution”). Quarto: per dare sempre qualcosa di più, citare un libro, consigliare la lettura di un articolo, suggerire il passaggio di uno scritto classico: si leggono, infatti, poco i classici. Quinto: per suscitare “ragionevoli speranze”, contro ottimisti alla Pangloss e catastrofisti (le “ragionevoli speranze” di cui ha scritto in un piccolo bel libro, intitolato “Speranze” ed edito da il Mulino, Paolo Rossi, il filosofo e storico della scienza). Bobbio ha scritto di sé di essere “uomo di ragione, non di fede” (legga il bel profilo del maestro torinese scritto di recente da Mario Losano per Carocci). Noi dobbiamo insegnare razionalità e dialogo, nonché far sperare in un possibile futuro migliore. Interpreto così anche il messaggio del libro scritto dal direttore Claudio Cerasa (“Abbasso i tolleranti. Manuale di resistenza allo sfascismo”, Rizzoli, 2018), una iniezione di ottimismo che non vuol dire minor severità rispetto a quello che va storto, e proprio per questo vedere un futuro non nero.
Fin qui ha parlato solo del metodo. I contenuti? Ci sono motivi ricorrenti?
Provo a riassumerli. La democrazia non è solo elezioni, ma anche divisione dei poteri, tutela delle libertà, poteri contrapposti, dialettica popolo-élite (nella terminologia ottocentesca, paese reale- paese legale). Sono conclusioni dei maggiori teorici della democrazia, che vengono spesso dimenticate. Poi, specialmente nelle fasi di passaggio, la polarità tra esigenze universali di giustizia e leggi positive va ricordata. Noi siamo a una svolta, con il passaggio in secondo piano delle due forze politiche che hanno dominato la scena dell’ultimo quarto di secolo. Questa svolta avviene senza che siano attive le forze di opposizione. Più forte, quindi, l’esigenza di tolleranza e misura. Rinnovato il Parlamento, ora va rinnovato il governo. La procedura consueta (nomina del presidente del Consiglio, nomina dei ministri, presentazione del programma) è stata modificata, creando non poche difficoltà. Si è partiti dal contratto di governo, e qualcuno ha osservato che un contratto non fa un’alleanza: il contratto di matrimonio, da solo, non fa un matrimonio, perché ci vuole anche il desiderio di vivere insieme. Insomma, cambiano gli “attori” principali, si modificano le sequenze procedurali. Tutto questo richiede attenzione, esame delle conseguenze, cautela, attenzione per la stella polare. Quel che è successo nelle ultime ore è sintomatico. Si è passati dalla compostezza istituzionale iniziale a una forzatura delle sequenze, a una irragionevole impuntatura, seguita da una contestazione delle istituzioni.
Torniamo a lei, caro professore. Fino a questo punto ha fatto il ritratto dell’intellettuale “engagé”, come si diceva nel Dopoguerra…
La interrompo subito. Perché sbaglia. L’intellettuale “engagé” era quello che si “buttava in politica” o almeno era ideologicamente schierato. Io sto parlando di un altro tipo di impegno: come le ho detto un’altra volta, un noto intellettuale britannico, Stephen Spender, ironizzando sui suoi colleghi francesi, scrisse un libro (contenente due novelle) intitolato “Engaged in writing”. E’ questo, se mai, l’esempio che penso debba essere seguito: non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire, che interessi tale pubblico. Ciò che richiede anche capacità di “reinventarsi”, ma senza tradire il proprio mestiere.