Il successo della maggioranza dipende dalla debolezza dell'opposizione
La lezione dimenticata della più antica democrazia, quella inglese, dove “government and opposition” sono un binomio inscindibile
Professor Sabino Cassese, che succede all’opposizione? Molti osservatori lamentano che, dopo le elezioni del 4 marzo 2018 e la costituzione del governo M5s-Lega, siano sparite le opposizioni, a beneficio della maggioranza.
Diagnosi giusta, valutazione errata. L’assenza di opposizione non è un vantaggio, ma un costo per la maggioranza (e ancor più per la democrazia, in generale).
Possibile che, se non si hanno oppositori, si governi peggio?
Per capire, bisogna distinguere l’aspetto istituzionale da quello politico. Si intersecano, ma conviene esaminarli per un momento separatamente.
Cominci, allora dall’aspetto politico.
No, bisogna cominciare dall’altro, per comprendere il contesto. Nella più antica democrazia, quella inglese, “government and opposition” sono un binomio inscindibile (pensi che dal 1965 esce una rivista di politologia comparata con questo nome). Da un lato c’è il “ruling party”, dall’altro l’“Her Majesty’s Opposition”. Quest’ultima ha un leader con stipendio commisurato a quello di un ministro, un “governo ombra” per seguire passo per passo l’attività governativa della maggioranza, giorni a essa riservati in Parlamento, diritto di essere informata dei più riservati passaggi relativi alla politica estera e di difesa.
A che serve tutto questo?
Alla democrazia. La democrazia non è solo elezioni, consultazioni popolari, ma anche competizione tra forze politiche, dialettica maggioranza-minoranza, controllo parlamentare del governo. Questi ultimi tre elementi sono essenziali. Il Parlamento – ad esempio – come potrebbe svolgere la funzione essenziale di controllo del governo (che è figlio della maggioranza), se non ci fosse una opposizione?
Allora non basta l’investitura popolare?
L’idea che basti il “bacio del popolo” è frutto di elementarismo, spesso alimentato dalla convenienza. Ed è una idea propria del populismo, che tende a sottovalutare le altre componenti della democrazia, quali quelle del potere diviso, della contrapposizione tra i poteri, dei controlli. Per capire questo bisogna leggere la critica della “popolocrazia” svolta nell’omonimo volume, edito da Laterza, di Marc Lazar e Ilvo Diamanti, una riflessione comparata, che esamina l’impatto del populismo sulla democrazia, con una profondità anche storica (dai narodniki russi a Boulanger, al People’s Party, agli antisemiti francesi).
Come sta funzionando il nuovo Parlamento?
Per ora, ha ben poco da fare. Il mio timore è che, senza vigorose opposizioni, venga alimentata la tendenza già forte nel nostro Parlamento a fare da cassa di risonanza o di luogo di rappresentanza degli interessi. Insomma, un Parlamento aperto a quella parte della società che riesce a farsi sentire, corporativo. Per ora, le due forze predominanti hanno occupato tutti i posti di comando.
Passiamo al lato politico.
Qui c’è da registrare l’imbarazzo di Forza Italia nel fare l’opposizione al proprio alleato e l’afonia del Pd. Questa è parte di un fenomeno più generale, una sorta di esaurimento della spinta propulsiva che le forze socialdemocratiche stanno mostrando in tutto il mondo. In Italia si manifesta in tre modi: incapacità di individuare nuovi obiettivi; abbandono degli stili e degli strumenti tradizionali (i riti dei congressi, le sezioni, i giornali, le scuole di partito); distacco dal proprio passato, quello della classe politica che emergeva lentamente dalle comunità locali, per promozione lungo linee di partito (sul passato, vi sono belle pagine nei “Diari” di Nenni). Non so se la sinistra riuscirà a risollevarsi da una crisi così profonda, anche perché ha sperimentato prima l’Ulivo (1995-2007), poi il Pd (2007-2018). Marco Follini, in un’intervista al Dubbio del 24 maggio 2018, ha segnalato le difficoltà della “mescolanza” di culture politiche diverse, che ha portato a cancellare le proprie identità. Io vedo un esaurimento del grande ideale della libertà dal bisogno (Beveridge), che ha tenuto in piedi dal 1942 la sinistra e ha condotto al Welfare state. E noto una difficoltà nell’interpretare un’economia e una società che cambiano, dove non c’è più la grande fabbrica, scompaiono vecchi mestieri, si affacciano nuove tecnologie, i nuovi populisti da un lato agitano nuove paure, dall’altro imitano vecchi stili di governo spartitorio, sono divisi dagli obiettivi, uniti dal potere (forse come la vecchia Dc), mescolano volentieri problemi veri con problemi falsi, inventano problemi che non esistono, ma sanno anche mantenere un radicamento locale, come quello della Lega, o sfruttare l’atavico ribellismo meridionale (come fa il M5s).
Rimangono aperte molte domande.
Infatti. La crisi dei partiti produce o accompagna il populismo, o è il populismo che produce o accentua la crisi? In altre parole, il populismo riempie uno spazio vuoto o fa esso il vuoto? Quanta parte del populismo è in realtà leaderismo condito da demagogia populista? Come viene sfruttato il mix di movimentismo e di istituzionalizzazione che osserviamo in Italia tutti i giorni, con rapidi cambi d’abito, di stile e di tono, e come riesce a imporre le proprie regole del gioco e i propri temi agli altri, così annullando le opposizioni (pensi soltanto ai vitalizi, tema sul quale il Pd ha seguito il M5s)?
Come valuta, conclusivamente, la situazione italiana?
Il successo della maggioranza che si è costituita dipende, in sostanza, dalla debolezza dell’opposizione. Forza Italia e Pd, rimasti in minoranza, hanno sempre meno forza aggregativa, mancano di federatori, inseguono obiettivi disparati, in direzioni diverse, tentando disperatamente di inseguire i temi della maggioranza, senza capacità di mettere alcun tema all’ordine del giorno. Le frasi e i toni che ascoltiamo (un vicepresidente del Consiglio ha minacciato il 13 luglio: “Se anche uno solo dei funzionari italiani che rappresentano l’Italia all’estero continuerà a difendere trattati scellerati come il Ceta, sarà rimosso”) sono da democrazia illiberale.